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Dopo il G20, i nemici dell'acciaio italiano sono i tabù, non i dazi

Annarita Digiorgio

Stati Uniti e Unione Europea firmano un accordo per l’eliminazione dei dazi sull’acciaio e l’alluminio. La versione di Antonio Gozzi, past president di Federacciai: "Liberalizzare e aprire il mercato non vuol dire che non ci sono regole, ma vuol dire imporle e salvaguardarle"

Era nell’aria da qualche mese, ma nessuno avrebbe pensato che sarebbe accaduto proprio in Italia: la firma tra Stati Uniti e Unione Europea per l’eliminazione dei dazi sull’acciaio e l’alluminio. E invece l’accordo è stato raggiunto proprio durante il G20 di Roma e ne rappresenta forse l’effetto concreto e immediato più importante. I dazi del 25 per cento sull’import dell’acciaio e del 10 sull’alluminio erano stati imposti da Trump nel 2018 per difendere la produzione interna americana. L’Europa rispose con altrettanti dazi sull’import di prodotti americani come motociclette, jeans, riso, tabacco e burro d’arachidi, venendo a sua volta colpita su prodotti italiani come il Parmigiano.

 

L’obiettivo principale è certamente quello di riaprire il mercato atlantico in funzione anti Cina, che, come ha detto Draghi nella conferenza conclusiva, produce oggi più del 50 per cento di tutto l’acciaio mondiale di cui più del 90 per cento a carbone. Ne è molto soddisfatto Antonio Gozzi, past president di Federacciai: “Avevamo fortemente avversato questa scelta di Trump, anche perché fino ad allora Usa ed Europa erano sempre stati alleati anche nel mercato dell’acciaio. Ogni misura protezionistica ci vede avversari perché corrisponde a un restringimento dei mercati. Diverse invece sono le misure che contrastano il dumping sociale e ambientale di paesi che non rispettando criteri ormai pressoché comuni al mercato occidentale, applicando un commercio sleale. Liberalizzare e aprire il mercato non vuol dire che non ci sono regole, ma vuol dire imporle e salvaguardarle”.

 

In questo senso Gozzi difende le clausole di salvaguardia applicate dall’Europa all’import delle quote di acciaio che sono state prorogate di altre tre anni, nonostante le associazioni di utilizzatori ne chiedevano revisione in un momento come quello attuale caratterizzato da un forte aumento della domanda e carenza di materie prime. Il rischio in sostanza è che con l’apertura dell’export verso gli Usa rischia di rimanere scoperto il mercato interno europeo già in forte carenza di acciaio.

 

Secondo Gozzi questo non si verificherà perché quello dell’acciaio è un mercato di prossimità costando parecchio i trasporti che comportano anche maggiori tempi e stoccaggio. Per questo invece è importante, ancor più con l’eliminazione dei dazi, aumentare la produzione interna di acciaio. Ed è assurdo in questo senso che si tenga a regime ridotto, senza motivazione, proprio Acciaierie d’Italia (la nuova Ilva pubblica) con la maggior parte della forza lavoro in cassaintegrazione.

 

“La maggior parte della C02 – dice Gozzi, che domani avrà un incontro con tre ministri Cingolani (Ambiente), Patuanelli (Agricoltura) e Giorgetti (Sviluppo)  su questi temi – è prodotta dalle acciaierie cinesi a carbone. Mentre in Italia siamo decarbonizzati da molto prima che Greta nascesse. Di 24 milioni di tonnellate di acciaio prodotte nel nostro paese, 20 vengono da forno elettrico a rottame (acciaio riciclato: economia circolare pura) solo 4 dagli altiforni Ilva. Azienda che è importante rimanga a ciclo integrale per mantenere la filiera. Ci sono settori, conclude Gozzi, che non possono essere elettrificati, come i cementifici. E le soluzioni che proponiamo al governo sono tre: carbon capture, idrogeno  e biogas. Servono 15 miliardi e un fondo dedicato. All’articolo 127 della finanziaria ci sono 150 milioni. Noi siamo pronti, vediamo se il governo ci seguirà”. 

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