(foto d'archivio Ansa)

La fabbrica del mondo sbuffa. Come nasce l'èra della scarsità

Stefano Cingolani

Perché in questa fase mancano beni di prima necessità? C'entrano cause diverse, dalla decarbonizzazione al perdurare del protezionismo. In più la catena produttiva della Cina con la pandemia sìè spezzata e non sappiamo cosa aspettarci

Manca tutto, persino la carta igienica, sì, proprio come nei primi mesi della pandemia. The Atlantic, la rivista cult dell’America liberal, acquistata da Laurene Powell vedova di Steve Jobs, si lamenta e s’allarma. Ma come, vivevamo nell’abbondanza e adesso siamo precipitati nell’economia della scarsità? E’ l’Economist a chiamarla così, è il titolo della sua storia di copertina questa settimana. Intanto il Financial Times ci informa che le autorità cinesi hanno ordinato ai minatori di estrarre più carbone per evitare una stretta energetica. Vladimir Putin è intervenuto per chiedere di aprire la chiavetta e far passare più gas attraverso l’Ucraina per alimentare l’Europa. Il Wall Street Journal aggiunge legna al fuoco che brucia Evergrande, il colosso immobiliare cinese: in quel caso non scarseggiano le case, semmai gli acquirenti. E poi c’è la carenza allarmante di chip che costringe alla chiusura le case automobilistiche. In Inghilterra manca addirittura il cibo sugli scaffali, colpa della Brexit, certo, ma non solo. Cosa sta succedendo? 

Non c’è un’unica spiegazione, piuttosto una convergenza di fattori in sé e per sé diversi, un insieme di cause congiunturali, quindi momentanee, e strutturali, cioè di lungo periodo, proprio come accade prima della “tempesta perfetta”. La prima ragione secondo l’Economist riguarda il rimbalzo dopo la pandemia. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2010, si è speso troppo poco, famiglie e governi hanno tagliato i loro debiti e hanno ritrovato un loro equilibrio finanziario, intanto le banche centrali hanno cominciato a pompare moneta nelle tubature asciutte dell’economia. Il Covid-19 ha fatto crollare sia la domanda sia l’offerta, così tutti i paesi sono corsi ai ripari, si sono indebitati e hanno gettato moneta dagli elicotteri (secondo la nota metafora di Milton Friedman). Ora che la pandemia s’allontana dalle aree più ricche del pianeta, la domanda è così forte che l’offerta non riesce a tenerle dietro. Un risultato non voluto, un boomerang? E’ il mercato, bellezza. Tutto qui? Dunque è una crisi passeggera. E passeggera sarà anche l’inflazione. I prezzi sono ancora una volta gli indicatori migliori: se la febbre congiunturale s’abbassa, scendono anche loro. Calma, le cose sono molto complicate.

Ci sono di mezzo, infatti, due forze più profonde. La prima è la decarbonizzazione. Lo spostamento dal carbone alle energie rinnovabili è stato così repentino da provocare un balzo nella domanda di gas alla quale i paesi produttori non sono stati in grado di rispondere, così i prezzi sono balzati in alto trascinando materie prime e beni di consumo. L’intervento di Putin potrà migliorare un po’ la situazione in Germania, il paese che ancora usa molto carbone per le centrali, ma difficilmente potrà invertire la tendenza. La seconda forza è il protezionismo. Non è cominciato con Trump, anche se The Donald ha dato la spinta più brusca, e non è finito con lui. Joe Biden ha confermato che manterrà le tariffe contro i prodotti cinesi. Un brutto colpo su un’economia che sta rallentando più di quanto ci si attendesse. E’ stata una svolta repentina, fotografata dall’andamento delle borse. Da gennaio a maggio hanno fatto un balzo in alto, spinte dall’ottimismo per la fine della pandemia e la ripresa della domanda internazionale; da giugno a oggi sono scese velocemente e registrano un segno negativo, con Hong Kong peggiore di Shanghai. Non sappiamo come stanno andando per davvero le cose nell’Impero di Mezzo, ma i segnali non sono certo buoni. 

La fabbrica del mondo sbuffa, il motore va fuori giri. La catena produttiva che dalla Cina estende i suoi tentacoli in tutto il mondo, come una gigantesca piovra, s’è spezzata con la pandemia. Non sarà facile aggiustarla, anche perché è in atto un ripensamento sui limiti e le debolezze della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta. L’Economist evoca gli anni 70, non solo e non tanto per il pericolo di un ritorno alla stagflazione (stagnazione più inflazione), ma perché come allora viene sfidato il paradigma dominante. La distruzione spinge a rimettere in discussione l’ortodossia, scrive il settimanale. Facendo un passo più in là possiamo aggiungere che, in forme ancora confuse e incerte, ci si sta avviando verso un nuovo modo di concepire e organizzare la globalizzazione. Non è la sua fine. A chi la predica, del resto, bisognerebbe dire: guardate che succede ora che non funziona più bene. Ma senza dubbio l’intero processo di produzione, distribuzione, finanziamento dell’economia mondiale si sta trasformando. Al di là di una generale tendenza a portare la produzione più vicina ai mercati di consumo, vediamo che tra globale e locale si forma un legame sempre più stretto. Tuttavia, stiamo entrando in una terra incognita. Se è così dobbiamo aspettarci nuovi sussulti e non sarà davvero facile gestirli.

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