No, l'italianità non aiuterà a capire il senso delle mosse di Del Vecchio e Caltagirone su Generali

Stefano Cingolani

L’asse per il futuro di Generali, gli accordi tra i due azionisti, la partita per il nuovo amministratore delegato e una chiave di lettura per sfuggire dalla retorica nazionalista

Riusciranno i nostri eroi del capitalismo nazionale a rovesciare il semisecolare dominio di Mediobanca sulle Assicurazioni Generali? Oppure riuscirà l’ultimo successore di Enrico Cuccia a convincere i fondi d’investimento che il salvadanio degli italiani sta meglio nelle mani del capitalismo globale? Nessuno dei protagonisti dello psicodramma finanziario ha le sembianze di Albero Sordi e Nino Manfredi, tanto meno c’è un Ettore Scola a tirare i fili dello spettacolo. Non ce vogliano gli sfidanti Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo del Vecchio e tanto meno lo sfidato Alberto Nagel se facciamo ricorso all’ironia, ma finora nessuno ha spiegato per filo e per segno ai milioni di risparmiatori che affidano i loro quattrini al Leone di Trieste, strategie, propositi e obiettivi.
  
Si capisce che il patto di sindacato siglato da Caltagirone e Del Vecchio, sostenuto anche da Benetton e dalla Fondazione Crt (insieme possono raggiungere oltre il 15% dei capitale) vuole impedire che Mediobanca (possiede il 13% delle azioni ed è sostenuta dalle famiglie Boroli Drago con l’1,2%) faccia quadrato attorno all’amministratore delegato Philippe Donnet il quale ha già detto al presidente Gabriele Galateri di voler restare alla guida della compagnia. E’ una battaglia di potere, dunque, perché Caltagirone e Del Vecchio non vogliono solo cambiare il timoniere, ma spendono i loro quattrini e intendono avere un ruolo attivo in un consiglio di amministrazione che, così come è strutturato, serve sostanzialmente a sostenere le scelte del management. Scelte che finora hanno garantito buoni risultati e cospicui profitti, ma che non convincono gli sfidanti. Perché? Quale alternativa propongono? Sappiamo che vorrebbero un Leone ruggente, che non solo respinga una volta per tutte ogni insidia straniera e qualsiasi velleità di finire in bocca a una fiera più grande e potente (la francese Axa, la tedesca Allianz?), ma sia pronta a mangiare prede appetibili in Europa e non soltanto. Dunque, la loro non sarebbe una strategia difensiva, non è una spinta al sovranismo protezionista, tutto il contrario.
 
Dal canto suo Mediobanca vuole difendere il suo ruolo privilegiato, quello che con il 13% gli ha finora consentito di decidere come vuole uomini e strategia delle Generali. In secondo luogo intende mettere in campo una concezione della governance e dell’impresa in linea con il modello anglosassone, quello della public company che, secondo i seguaci del capitalismo familiare, sarebbe in realtà “l’impresa di nessuno” (così la chiamò Bruno Visentini) o meglio di un management autoreferenziale. La maggior quota del capitale (circa il 24%) è in mano ai fondi di investimento i quali però non fanno blocco e soprattutto guardano al breve periodo; una strategia di espansione internazionale è complessa e rischiosa e va valutata con un’ottica di lungo periodo: è questo l’argomento che la coppia Caltagirone-Del Vecchio useranno per convincere i fondi, fino a questo momento favorevoli a Nagel, a cambiare cavallo. Di qui ai prossimi giorni bisognerà corteggiarli e convincerli a sostenere l’uno o l’altro schieramento. Martedì ci sarà una prima riunione tra i consiglieri non esecutivi (con l’esclusione quindi di Donnet) in vista del consiglio del 27 prossimo dedicato all’analisi dei conti. In quella sede si comincerà a capire come butta in vista dell’assemblea che si terrà nell’aprile del prossimo anno. Sulla carta c’è tempo, ma lo showdown è già avvenuto e il patto di sindacato annunciato da Caltagirone e Del Vecchio rappresenta un colpo d’acceleratore.
 
Quel che stona in tutta questa complessa partita dai molti risvolti, anche di natura strategica, è la bandiera dell’italianità (richiamata oggi nell’editoriale di fondo del Sole 24 Ore). Guardiamo ai protagonisti. Del Vecchio opera dal Lussemburgo anche se utilizza Unicredit che è italiana, ma la più europea delle banche italiane. Essilux nata dalla fusione tra Essilor e Luxottica è quotata a Parigi e ormai più francese che italiana da ogni punto di vista. Caltagirone è ben radicato a Roma, tuttavia il suo gruppo produce la stragrande maggioranza del fatturato e degli utili in paesi esteri. Ormai si può dire lo stesso anche dei Benetton. Quanto a Mediobanca è vero che parla le lingue (l’inglese ormai più del francese), ma non è una banca straniera, è a Milano in piazzetta Cuccia e paga le tasse in Italia. Come sempre quando si fa ricorso all’ideologia si finisce per coprire una realtà ben più complessa. Quel che è interessante e non può non avere anche risvolti politici è invece il confronto aperto tra due modelli di finanza e di capitalismo. Che la festa cominci.