Mps, modello salvataggio

Mariarosaria Marchesano

Dal Banco di Napoli negli anni ’90 alle venete. Due precedenti, diversi ma funzionali, suggeriscono un buon modus operandi per la gestione della banca senese 

“E’ positivo tutto ciò che stabilizza il sistema bancario nazionale”. A poche ore dall’inizio dell’audizione del capo del Mef, Daniele Franco, davanti alle commissioni Finanze di Camera e Senato, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, è intervenuto sull’operazione Unicredit-Mps dicendo che questa non incontrerà alcun tipo di ostacolo da parte della sua banca. Un vero endorsement incassato dal ministro Franco chiamato dal Pd a spiegare i dettagli dell’operazione che sta molto agitando la politica, ma su cui il governo intende tirare dritto. Del resto, risolvere una crisi bancaria cedendo  la parte sana a un gruppo privato, previo scorporo dei crediti deteriorati (nel caso di Mps, anche dei rischi legali), non è una novità. Questo tipo di intervento ha una storia ultraventennale in Italia: è stato sperimentato per la prima volta a metà anni 90 con il crac del Banco di Napoli e sulla base di quella esperienza è nato un modello “italico” dei salvataggi bancari, che l’Europa ha sempre guardato con interesse e allo stesso tempo con scetticismo per il rischio che vengano erogati aiuti di stato camuffati. Preoccupazione che Franco conosce bene visto che tra il 1994 e il 1997, quando si decise di affrontare la grave crisi della banca partenopea con la costituzione di una bad bank (la ex Sga oggi Amco), era consigliere degli Affari economici e finanziari della Commissione europea.


Altri tempi, però. Allora c’era il decreto “Sindona” a dare una mano alle banche sull’orlo del collasso e, comunque, l’attenzione dell’Europa non era così pressante come oggi. Molti anni dopo, anche in virtù dei risultati ottenuti dalla Sga con le sofferenze del Banco di Napoli (il recupero è arrivato al 95 per cento), la stessa tipologia di intervento è stata replicata in diversi altri casi analoghi: via i prestiti cattivi, spezzatino degli asset e cessione della good bank a un operatore creditizio che riceve la “chiamata”. E’ andata così per le banche venete (vendute a Intesa Sanpaolo) ed è questa la strada tracciata dal Mef per Montepaschi. Attenzione, però, perché Veneto Banca e Pop Vicenza furono poste in liquidazione coatta amministrativa – con conseguenze per azionisti e creditori – prima che la good bank fosse ceduta a Intesa, cosa che si vuole evitare per una banca pubblica come Mps. La differenza fondamentale tra le due operazioni è che quella senese avviene “in bonis”. In questo senso, dunque, il salvataggio del Monte assomiglia più a quello del Banco di Napoli che all’intervento sulle venete. Tutte e due banche antichissime ed entrambe vittime di una gestione troppo influenzata dalla politica e da logiche di partito. Ma c’è un filo conduttore che lega questi tre casi, Banco di Napoli, banche venete e Montepaschi, ed è rappresentato dalla pulizia preliminare dei bilanci dai crediti inesigibili.

 

Tanto si è rivelato efficace questo tipo di operazione (meno diffusa in altri paesi europei) che oggi la società Amco controllata dal Mef (l’ex Sga) ha accumulato ben 35 miliardi di crediti deteriorati, di cui la stragrande maggioranza provenienti da crisi bancarie. Spostare, però, i finanziamenti cattivi in una bad bank equivale a mettere la spazzatura sotto il tappeto e, soprattutto, non è gratis. Lo stato, quando fa queste operazioni, è costretto a rilasciare garanzie pubbliche che coprano il rischio del mancato recupero. Nessuno conosce a quanto ammontano le garanzie che sono state necessarie fino a oggi per rendere possibili gli interventi di Amco, ma di sicuro si tratta di svariati miliardi. Un rischio calcolato, si dice sempre. Ma, per onestà, bisognerebbe aggiungere che le prospettive di recupero (legate all’andamento del ciclo economico) non sono quelle che ha avuto davanti la Sga dalla fine degli anni 90 in poi. Una cosa è vera: la salvaguardia della stabilità finanziaria del paese ha un costo che nella visione di Bankitalia sarebbe molto più elevato se lasciasse fallire una banca rischiando di provocare un sisma nel sistema e di applicare le norme sul bail-in. Per questo, non c’è da sorprendersi che il Mef abbia esercitato un certo pressing su Unicredit per indurlo a sedersi al tavolo delle trattative offrendogli anche un consistente incentivo fiscale, che rappresenta la novità introdotta dai governi Conte e Draghi per incoraggiare il consolidamento nel settore e prevenire altre Mps. 
 

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