Un artigiano lavora il vetro a Murano, Venezia (LaPresse)

Uno choc positivo

Innovare per tornare ai livelli pre crisi. Ricette per le piccole imprese

Mario Pagani e Pietro Romano

Coniugare le abilità artigianali proprie del Made in Italy con la conoscenza scientifica, creando una rete organica tra mondo imprenditoriale e istituzioni finalizzata alle attività di ricerca e sviluppo.

L’anno del Covid non ha rallentato l’attività di ricercatori e innovatori italiani. Tutt’altro. A rilevarlo è l’European Innovation Scoreboard, lo strumento annualmente elaborato dalla Commissione europea per analizzare le prestazioni innovative degli stati membri dell’Ue. Una tendenza italiana al rialzo che dura in sostanza dal 2014, l’anno della prima indagine europea. In questo periodo, a fronte di una crescita media continentale del 12,5 per cento, il nostro paese ha migliorato le proprie performance a un ritmo esattamente doppio: più 25 per cento. Un dato che l’ha posto tra quanti hanno fatto gli sforzi relativamente più rimarchevoli, addirittura meglio dei tradizionali primi della classe in questo ambito: i paesi scandinavi. E benché l’etichetta sintetica appiccicata all’Italia sia ancora quella di “innovatore moderato”, perché il punto di partenza era effettivamente basso, tutto lascia prevedere a breve il balzo tricolore sul podio, tra i “forti innovatori” o addirittura gli “innovatori leader”.

 

Una scalata non indifferente. Ma poiché le sconfitte hanno sempre pochi padri e le vittorie ne hanno molti è bene fin d’ora dare a Cesare quel che è di Cesare. E alle micro e piccole imprese, universo troppo facilmente (e troppo spesso) accusato di ogni problema e di ogni arretratezza del sistema produttivo, quanto è loro. Non si tratta di voler tirare l’acqua a nessun mulino in particolare. Basta compiere due osservazioni basate entrambe sui numeri. La prima è che in Italia la quota di spesa dei privati sugli investimenti complessivi in ricerca, innovazione e sviluppo è costantemente salita negli ultimi anni e si è ormai avvicinata a quella media europea. Nel frattempo calava in proporzione l’incidenza della spesa pubblica, in controtendenza peraltro rispetto ai paesi “pari taglia”. Ma se è giocoforza mettere in collegamento il maggior impegno dei privati al miglioramento delle prestazioni italiane, è altrettanto obbligato evidenziare il ruolo di micro e piccole imprese in questo processo. Nel nostro paese le imprese che contano meno di 49 addetti (appunto le micro e piccole imprese) costituiscono il 99,3 per cento del totale, con il 62,6 per cento degli occupati e il 43,1 per cento del fatturato. Difficile che il colpo di reni italiano sul fronte dell’innovazione sia stato possibile senza il loro forte contributo.

 

I risultati raggiunti e quanto si è fatto per ottenerli, però, sono apprezzabili ma evidentemente non bastano. Alla vigilia della crisi pandemica, l’Italia continuava a essere l’unico paese europeo a non aver raggiunto i livelli di reddito precedenti alla crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Le recenti previsioni della Commissione europea avvertono, inoltre, che la crescita presunta del prodotto interno lordo nel 2021 e nel 2022 servirà a recuperare le perdite del 2020, con un saldo pari al più 0,3 per cento, non ad altro. Urge uno choc positivo. E la cura più indicata è senz’altro una forte dose di innovazione: proprio l’innovazione incessante è il tratto caratterizzante del nostro tempo. Un deciso rilancio delle attività di ricerca e sviluppo può non essere l’unica soluzione ma di sicuro può fare da locomotiva del convoglio. Purché le politiche a monte di questo processo, e ancora più la loro declinazione, si muovano in forte sinergia con il mondo delle imprese e in particolare, considerata la geografia imprenditoriale italiana, delle micro e piccole.

 

Per carità, i risultati nella “classifica” dell’Innovation European Scoreboard sono anche il frutto degli strumenti pubblici attivati negli ultimi anni: dalla Nuova Sabatini al Super-ammortamento e al kit legato a Impresa 4.0. Un insieme che ha rappresentato un buon punto di riferimento, misure quindi da confermare ma con modalità in grado di coinvolgere il numero più ampio possibile di imprese, favorendo magari le micro e le piccole. La storia del nostro “Made in” sarebbe stata profondamente diversa se le piccole imprese non avessero posto un’attenzione quasi maniacale alla necessità di innovarsi costantemente, sia pure in maniera informale, soprattutto per adeguare prodotti e servizi alle esigenze del mercato, fosse anche costituito da un singolo cliente. Più si alza l’asticella della competizione globale, però, più diventa complicato procedere in autonomia, come le micro e piccole imprese (lo ha rilevato una indagine della Cna) fanno nel 40 per cento dei progetti innovativi.

 

Come procedere, allora? Indicazioni dettagliate le suggerisce il World Economic Forum, secondo il quale “migliorare l’innovazione richiede un ambiente favorevole. In particolare, investimenti sufficienti per la ricerca; la presenza di istituti di eccellenza capaci di generare le conoscenze di base necessarie per sviluppare nuove tecnologie; una fitta collaborazione fra università e imprese e un’adeguata protezione della proprietà intellettuale”. Per seguire questo percorso è indispensabile un cambio di mentalità a tutti i livelli. A monte di sviluppo e innovazione c’è la ricerca. Ma fare ricerca è costoso e il sistema imprenditoriale italiano non può permettersi, per la sua tipologia, una semina gravosa che va lasciata alle grandi strutture, pubbliche e private. Purtroppo, però, come spiega un documento pubblicato sull’ultimo numero della Harward Business Review – Italia, il nostro paese sconta “un grave ritardo nel trasferimento tecnologico delle imprese”.

 

Diventa necessario, pertanto, “costruire una rete organica per la ricerca, l’innovazione, il trasferimento tecnologico qualificando e potenziando quanto di positivo esiste nel paese”. Ad esempio, valorizzando la flessibilità italiana anche nell’innovazione, giusta combinazione tra abilità artigianali e conoscenza scientifica, abitualmente messa in pratica soprattutto nelle piccole imprese. Senza dimenticare, lo ha ricordato Luciano Floridi, docente a Oxford, di focalizzarsi sulle eccellenze tricolori, concentrando progetti e investimenti in primo luogo su “i nostri pilastri, manifattura, agroalimentare, robotica industriale”.

 

Tante buone intenzioni rischiano di infrangersi sulla scarsa capacità di dialogo tra istituzioni e micro e piccole imprese. Il contributo già citato propone, per facilitare questo dialogo, “strutture di promozione territoriale e di intermediazione, organizzazioni che informano le imprese relativamente alle possibilità che trovano nelle strutture di ricerca e innovazioni e le guidano nei rapporti con tali strutture”. Strutture che in realtà già esistono. Sono le associazioni di imprese come la Cna, da sempre vicina ad artigiani e “piccoli”; tradizionalmente in grado di avvertirne le esigenze; impegnata, spesso con successo, a connetterle con le istituzioni. 

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