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dopo il g20

Tutte le incognite della minimum tax

Dario Stevanato

L'accordo raggiunto al G20 sulla tassazione globale delle grandi imprese multinazionali ha diversi nodi tecnici ancora da sciogliere. Ingessare le politiche fiscali degli stati potrebbe essere controproducente per molti paesi in via di sviluppo 

L’accordo raggiunto dal G20 di Venezia, volto all’introduzione di un livello minimo di tassazione dei redditi societari a livello globale, è stato salutato come un passo decisivo per il raggiungimento di una effettiva giustizia fiscale internazionale, fin qui minata dalla concorrenza sleale dei tanti “paradisi fiscali” ancora esistenti (che opererebbero anche all’interno dell’Unione europea, secondo alcuni), e dalle abilità pianificatorie delle grandi imprese multinazionali, soprattutto di quelle operanti nell’economia digitale, capaci di lavorare a distanza senza basi fisse nei mercati in cui si trovano utenti e consumatori, e di spostare agevolmente i loro profitti nei territori a più bassa tassazione.

 

Un tale obiettivo verrebbe raggiunto, da una parte, fissando un livello minimo dell’aliquota societaria al 15 per cento, con l’effetto di spiazzare le politiche fiscali di quei paesi che non raggiungono tale percentuale, togliendo loro uno strumento di concorrenza, evidentemente ritenuto dannoso per la maggioranza degli stati e i loro cittadini. Il mancato adeguamento dello stato della “fonte” del reddito consegnerebbe infatti allo stato in cui risiede la capogruppo il diritto di effettuare un prelievo compensativo per raggiungere l’aliquota minima convenuta a livello globale, rendendo così meno attrattiva (o non più attrattiva) la localizzazione delle imprese nel primo stato. 

 

D’altra parte, per chiudere l’accordo occorreva venire incontro alle richieste dei paesi che, come quelli europei, in base alle attuali regole si trovano nell’impossibilità di prelevare imposte su profitti che, pur riferendosi a vendite che vedono come controparti i propri consumatori, non possono dirsi “prodotti” sul territorio in assenza di una base fissa dell’impresa multinazionale (che in questo caso riesce a cedere i propri beni o prestare i propri servizi “da remoto”). A tal fine, l’accordo che dovrà essere implementato prevede che, su una quota dei “profitti residuali” eccedente un margine fissato al 10 per cento del fatturato, sia assegnato un diritto di tassare allo stato della fonte, in cui si trova il mercato e in cui risiedono i consumatori.

 

Ciò detto, appare difficile formulare valutazioni conclusive su un assetto che, per diventare operativo, dovrà essere definito nei dettagli e sciogliere alcuni importanti nodi di carattere tecnico.

 

Uno di essi attiene, ad esempio, ai rischi che l’omogeneizzazione del livello minimo dell’aliquota societaria, non accompagnata da un’armonizzazione nel calcolo delle basi imponibili, risulti ineffettiva o comunque fonte di complicazioni e incertezze, anche con riguardo agli attuali regimi speciali di favore, che l’aliquota minima rischia di azzerare o ridurre significativamente. A meno che, naturalmente, la minimum tax societaria non sia uno stimolo indiretto per gli stati a uniformare il modo di calcolare le basi imponibili secondo i suggerimenti dell’Ocse. 

 

Un altro tema attiene poi al rischio di segmentazione dei regimi di tassazione degli utili societari, dato che l’accordo raggiunto al G20 riguarderà solo le imprese di grande dimensione, con l’aggiunta che alcuni interi settori (come quello dei servizi finanziari) saranno esenti.

 

Si possono inoltre fin d’ora sollevare alcune perplessità di carattere generale e più strettamente “politico”, per certi aspetti controcorrente rispetto ai toni trionfalistici che stanno accompagnando l’iniziativa in questione.

 

Un diverso modo di allocare i profitti d’impresa ai fini fiscali, con enfasi posta non più sulla presenza fisica dell’impresa in un territorio bensì sul concetto di “destinazione” e sul mercato di sbocco, non è da preferire per ragioni ontologiche, ma lo è solo ponendosi nell’ottica dei grandi paesi con elevata popolazione e capacità di consumo, a scapito dei piccoli stati cui viene sottratto uno strumento di competizione. Non va infatti trascurato che il nuovo assetto delineato dal G20 non inciderà soltanto sulle localizzazioni di beni immateriali non unite a un’effettiva attività economica, ma anche sugli investimenti produttivi veri e propri, togliendo a molti paesi in via di sviluppo una importante leva per attrarre investimenti esteri. Non esiste insomma soltanto una competizione fiscale internazionale dannosa o sleale, ma anche un tipo di competizione fiscale appropriata, sull’attrazione degli investimenti esteri, che appare sbagliato eliminare o ridurre eccessivamente.

 

E poi, se anche vi è un largo consenso sull’utilità di un’imposta sugli utili societari, vi sono alcune controindicazioni nell’ingessare le politiche fiscali degli stati, di fatto uniformandole e costringendole nei limiti angusti di un unico schema impositivo, impedendo ogni tipo di sperimentazione riguardante i modelli di tassazione: perché uno stato dovrebbe voler raccogliere un ammontare minimo di imposte dai profitti societari su cui vanta un diritto potenziale, a pena di rinunciarvi a favore di altri stati, o addirittura volere istituire un’imposta sugli utili prodotti e non soltanto sugli utili distribuiti ai soci, secondo la soluzione adottata dall’Estonia e indicata come preferibile, in quanto amministrativamente più semplice e meno esposta a elusioni, da alcuni economisti?  

 

È anche su temi come questi che andrebbe aperta una discussione senza preconcetti, se solo si riuscirà ad andare oltre la narrazione che oggi appare dominante.

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