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Autostrade a Cdp. Ciao ciao privatizzazioni

Franco Debenedetti

Oggi le aziende del primo capitalismo, energia, acciaio, trasporti, sono tutte pubbliche, Draghi non può farci nulla. Peccato

E’ finita così: la maggioranza assoluta di Autostrade per l’Italia è della Cassa depositi e prestiti (Cdp). Non è stato un esproprio per pubblica utilità, è stata la vendita forzata a un soggetto indicato dal governo. Mai più i Benetton in Autostrade, aveva sentenziato Toninelli: ma l’esito era condiviso dalla quasi totalità delle forze politiche, e non osteggiato, a volte esplicitamente, da larga parte dell’opinione pubblica, imprenditoria privata compresa. Si era suggerito che a comperare fosse il Mef, ciò che avrebbe più facilmente portato a soluzione il vero problema, cioè l’inadeguatezza del concedente a controllare il concessionario; si sarebbe anche potuto frazionare la rete e introdurre concorrenza per confronto. Il premier avrà pensato, non senza ragione, che, con il Pnrr e le riforme, non era il caso di mettere altra legna al fuoco.


Consummatum est. Con Autostrade pubbliche; con l’Ilva destinata alla respirazione artificiale con idrogeno verde e con Alitalia tenuta in vita con quella a euri sonanti;  con Finmeccanica relegata a Monfalcone dagli inventori del colbertismo; con Eni dove la transizione energetica avrà falcidiato la fair value delle riserve di petrolio e gas; con Leonardo e Microelectronics saldamente pubbliche: che cosa è rimasto di quell’evento straordinario, la scommessa di suscitare una classe di imprenditori che imparassero a gestire le grandi imprese del primo capitalismo, da cui erano stati esclusi per due generazioni? E che ne sarà di Tim, stretta tra il socio pubblico in conflitto di interessi, Bruxelles sempre più regulatory superpower, e un’opinione pubblica che non le perdona di essere stata la più grande privatizzazione di mercato in tutta Europa?


Oggi le aziende del primo capitalismo, energia, acciaio, trasporti, sono tutte pubbliche, Draghi non può farci nulla. Ora ciò che si deve assolutamente evitare è che capitale pubblico entri nell’azionariato delle imprese del “quarto capitalismo”, le medie industrie che hanno tenuto a galla il nostro paese e da cui oggi ci aspettiamo il recupero di quanto perduto nella pandemia. I passati governi hanno ordinato a Cdp di costituire un fondo “patrimonio dedicato” di 40 miliardi di euro, proprio per investire nel capitale di aziende medio piccole. Quello che ci si attende da Draghi è che annulli quella disposizione: quei 40 miliardi ritornino nella disponibilità della Cassa senza destinazione specifica.


A riavviare le aziende dopo la pandemia non basta il credito bancario: per riprendere a investire bisogna ricostituire il capitale bruciato. Chi immette capitale in una società riceve in cambio diritti di proprietà; che siano azioni o obbligazioni convertibili o altri strumenti equivalenti, poco cambia, conferiscono qualche potere su gestione e su strategie. E qui sta il punto. I governi passati hanno armato la Cdp perché lo facesse: non è la sola soluzione. Esiste un vasto mercato di aziende finanziarie, venture capital, private equity, “angeli”, e c’è un abisso di diversità tra avere per socio lo stato o un altro privato. Perché le aziende finanziarie private non hanno il potere, lo scopo, la storia della Cdp: come le imprese in cui investono, vivono nella concorrenza, sono decine in Italia, centinaia in Europa. Perché per i privati il lavoro è un input della produzione, per il pubblico è invece, dichiaratamente, l’output: c’è sempre il rischio che capitale pubblico finisca “destinato” a mantenere posti di lavoro anche in aziende decotte.


I proprietari di medie aziende che per riprendersi dopo la pandemia necessitano di capitali, o ne sono anche i gestori, o comunque ne controllano, anche gelosamente, gestione e strategie. Sono cresciute per proprio dinamismo, innovando per fare meglio dei concorrenti. Parlano la stessa lingua dei finanziatori privati, anche loro sono in concorrenza, anche loro rischiano. Il loro è un rischio reputazionale: chi fosse, non diciamo scorretto, ma anche solo troppo invadente, ci penserebbero i suoli concorrenti a farlo sapere. E hanno un modello di business congruente, che prevede una exit strategy: non hanno interesse a restare nell’impresa, vogliono uscirne appena è risanata, per reinvestire il capitale.


Mantenere viva e intatta la cultura dell’imprenditoria privata è una priorità esistenziale per il futuro del nostro paese. Inoltre l’economia italiana si gioverebbe grandemente dallo sviluppo di un canale non bancario di finanziamento delle imprese, che convogli a investimenti produttivi l’ingente massa di risparmio investito in depositi bancari o in titoli di stato. Non avverrà se i finanziatori professionali saranno spiazzati dai “capitali dedicati” di Cdp.

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