Non c'è Recovery plan senza un Parlamento decidente. Quattro svolte

Enrico Morando*

Specializzazione delle Camere, Commissioni veloci, fiducia, testi in variati. Prevenire i sabotaggi del Pnrr si può. Così

Il programma europeo Next Generation Eu è una coerente combinazione di riforme e investimenti. Sbagliano quindi tutti quelli che lo chiamano “fondo”: il Ngeu non è un gran volume di risorse europee cui gli stati membri possono attingere, ciascuno per le quantità assegnategli. È un programma dell’Unione che -finanziandosi con debito emesso sul merito di credito dell’Unione stessa- punta a realizzare un profondo cambiamento dell’economia e della società europee, per renderle al contempo più efficienti (recupero di capacità competitive nell’economia globale), più giuste (riduzione dei divari sociali, territoriali e di genere), più sostenibili (abbattimento delle emissioni e delle attività climalteranti).

 

 

Basta questa sommaria descrizione per aiutarci a capire le differenze tra il Piano di ripresa e resilienza presentato dal governo Draghi e la bozza dello stesso presentata dal governo Conte2. E questa differenza è più che sufficiente per spiegare perché il governo giallorosso è caduto: nella sua bozza di Pnrr c’erano gli investimenti – un insieme di progetti di spesa più o meno ben congegnati –, ma non c’erano le riforme. E le riforme non c’erano non perché non fosse chiaro -a chi quella bozza aveva preparato- che un Piano italiano senza le riforme indicate dagli organismi comunitari non aveva alcuna possibilità di essere preso per buono a Bruxelles, ma per l’ottima e definitiva ragione che la maggioranza che sorreggeva il governo – essendo ovviamente in grado di concordare sulla maggiore spesa –, era invece irrimediabilmente divisa, e quindi impotente, sulle riforme strutturali di cui quella stessa spesa era funzione servente. Di qui la crisi del governo Conte2 e la nascita del governo Draghi.

 

Il Pnrr presentato da Draghi risponde ora alle esigenze lasciate insoddisfatte dalla bozza del governo Conte? La risposta è sintetizzata a pagina 39 del testo: “Il piano prevede un insieme integrato di investimenti e riforme orientato a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività del paese. Parole facili da scrivere? Certo. Ma sono parole credibili, se ispirano un circostanziato elenco di riforme, con obiettivi e scadenze precisi, così definendo un contesto in cui singoli progetti di spesa diventano realizzabili e possono finalmente far muovere verso l’alto la produttività totale dei fattori (es. la riforma del servizio Giustizia, i cui tempi biblici deprimono sia i diritti civili, sia i diritti economici dei cittadini, delle imprese, degli investitori e dei consumatori).

 


Un percorso senza sbocco è improvvisamente diventato un facile sentiero fiorito? Tornerò subito sugli ostacoli, invero enormi, che dovranno essere superati. Ma non mi sembra inutile cercare una spiegazione razionale di una così rapida svolta. In primo luogo, ha agito la diffusa percezione del rischio: dopo tanto invocare un “nuovo piano Marshall”, quello era arrivato, ma noi ci stavamo pericolosamente avviando sulla strada che portava a non utilizzarlo. La paura non avrà fatto 90, in questo caso, ma 50 sì. Il resto, lo hanno fatto prima Mattarella, scegliendo Draghi. E poi quest’ultimo. Una cosa, infatti, deve essere chiara: anche il Piano elaborato dal nuovo governo presenta limiti evidenti. E’ stata l’enorme credibilità personale del Presidente del Consiglio a garantire ai partner dell’Unione e a tutti gli interlocutori -nazionali ed internazionali- che l’Italia ce la farà, che le lacune saranno colmate, che le scadenze saranno rispettate (ecco perché bisognava cominciare dal rispetto del termine per la presentazione: 30 aprile doveva essere e 30 aprile è stato).

 


E i partiti? E’ stato triste vederli impegnati – nelle ore in cui Draghi presentava al Parlamento il “suo”  Pnrr – in una accesa disputa sul coprifuoco: va mantenuto alle 22 o va spostato alle 23? Ma facciamo finta che si sia trattato di un brutto sogno, e guardiamo avanti. Il governo Draghi passerà, ci saranno le elezioni e i partiti che oggi compongono la maggioranza si divideranno, presumibilmente (e auspicabilmente), lungo l’asse destra-sinistra. Ma il Pnrr quello è e quello resta, almeno fino al 2026. Se il programma è scritto (da Draghi), e nessuno potrà discostarsene, pena il dissolversi dei doni e dei prestiti del NGEU, si può forse capire l’affannosa ricerca di motivi di distinzione dal presente alleato e futuro avversario. Forse c’è un modo meno stupido e pericoloso per conciliare le ragioni della concordia di oggi e quelle della discordia di domani. Due esempi basteranno a renderlo chiaro. Il primo ha di nuovo a che fare con le riforme strutturali. Prendiamo quella sulla Giustizia. Il Pnrr è molto ambizioso: a pag. 78 un insieme coerente di interventi sulla organizzazione degli uffici giudiziari sembra ispirato all’introduzione di figure di magistrati con competenze manageriali, cui affidare penetranti poteri e funzioni sull’organizzazione del lavoro; mentre a pag. 80 “la riduzione dei possibili passaggi di funzioni da incarichi giudicanti a quelle requirenti“, tocca il nodo delle carriere dei magistrati… Passi molto rilevanti, che ora centro-destra e centrosinistra si impegnano a compiere assieme. Ma non è tutta la strada che c’è da fare. Nulla impedisce ai partiti di dire ora, subito, quale obiettivo finale perseguono per la fase successiva: manager dell’ufficio giudiziario e separazione delle carriere, o no? Lo stesso si può dire in materia di tutele dei lavoratori dal rischio disoccupazione. Oppure in materia di scuola. Tutti campi nei quali Draghi, consapevole dei limiti politici imposti dalla eterogeneità della maggioranza che lo sostiene, ha adottato soluzioni di riforma coraggiose e incisive, che possono costituire una base condivisa tra destra e sinistra, ma sono aperte a sorreggere ulteriori, e forse più divisive, innovazioni.


Il secondo punto di applicazione del lavoro dei partiti è quello che riguarda la concreta attuazione del Piano che hanno appena votato. Il tempo perso da settembre a marzo obbliga ora ad un’agenda che si può definire impegnativa solo ricorrendo ad un pietoso eufemismo: tra decreti legge e disegni di legge delega, da presentare (ad opera del governo) e da discutere ed approvare (ad opera del Parlamento) entro il settembre 2021, il numero e la delicatezza delle misure legislative previste dal Pnrr sono tali da giustificare una previsione sintetica: con le “normali” modalità di discussione e decisione, è impossibile approvare nei tempi previsti le riforme, a partire da quelle “abilitanti”, che sono indispensabili per la realizzazione degli investimenti.


Credo che esista una sola via d’uscita da questa strettoia: un trasparente accordo politico tra governo e Parlamento (maggioranza e opposizione) per adottare, a regolamenti inalterati, una modalità di discussione e decisione sulle leggi Pnrr fondata su questi quattro pilastri.

 


Primo. Decisione preventiva per la “specializzazione” di ciascuna delle due Camere, assegnando a ciascuna la “prevalenza” nella trattazione delle leggi previste dal Piano;
Secondo. Il disegno di legge assegnato per competenza al ramo del Parlamento prescelto viene affidato alla Commissione del merito, con lo scopo di consentire in quella sede un esame approfondito del testo in ogni sua parte, garantendo che il Ggoverno -presente ai lavori della Commissione col Ministro- non presenterà suoi ulteriori emendamenti, se non per raccogliere le sollecitazioni del Parlamento;


Terzo. In Aula, il testo del disegno di legge – così come risulta dai lavori di Commissione – viene votato tramite apposizione della questione di fiducia, con l’impegno del governo a non apportare al testo della Commissione alcuna variazione;


Quarto. Il ramo del Parlamento che riceve il testo del disegno di legge per la seconda lettura, lo approva senza variazioni.

 
*Enrico Morando, già viceministro all’Economia

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