(foto EPA)

Le balle del Nyt sul flop della globalizzazione modello Suez

Carlo Stagnaro

No, la vicenda della nave Ever Given non è un modo per smontare il capitalismo internazionale. Piuttosto ci ricorda quanto sia importante tenere conto degli eventi poco probabili ma potenzialmente distruttivi

La globalizzazione ha fallito: lo dimostra, secondo un lungo articolo di Peter Goodman sul New York Times, la vicenda della nave Ever Given, che per giorni ha ostruito il canale di Suez. Il commercio internazionale è tornato sulle rotte pre-1869, quando le merci provenienti dall’Asia dovevano doppiare il Capo di Buona Speranza. La riduzione dei costi dei trasporti e delle comunicazioni e il progresso tecnologico hanno consentito alle imprese di ottimizzare le catene del valore e ridurre al minimo i magazzini. “Questi stessi avanzamenti – ha scritto il giornalista inglese – hanno creato delle vulnerabilità”: non solo decine di navi sono rimaste in attesa che l’ostacolo fosse rimosso o si sono date alla circumnavigazione dell’Africa, ma – quando arriveranno a destinazione – troveranno i porti intasati, con ulteriori ritardi. Fattualmente è tutto vero. Ma cosa dovremmo dedurne?

Il boom degli scambi dipende da innovazioni di varia natura: dall’inaugurazione di vie più brevi – come appunto l’apertura e poi il raddoppio del canale di Suez – alla standardizzazione dei container fino ai miglioramenti nella strumentazione di bordo e l’aumento delle dimensioni delle imbarcazioni. Sono questi progressi che hanno consentito di spingere il nostro sistema produttivo verso le forniture “just in time”: il conseguente ridimensionamento dei magazzini ha liberato risorse che, altrimenti, sarebbero rimaste bloccate nelle scorte o sarebbero andate sprecate. Goodman ritiene che questo abbia semplicemente prodotto più dividendi per gli azionisti, ma in realtà è solo un pezzo della storia. La maggiore efficienza si è in parte ribaltata sui clienti, riducendo i costi di produzione; in parte ha creato un forte incentivo all’innovazione, per differenziare o migliorare i prodotti; e, nella misura in cui ha reso i vari business più profittevoli, ha comunque generato ricchezza che poi è tornata in circolo.

Il Nyt insiste che la vicenda di Suez non rappresenta un’eccezione quanto, piuttosto, la regola. Già nei primi mesi del Covid la scarsità di mascherine e altri dispositivi di protezione individuale, quasi interamente prodotti in Cina e altri paesi asiatici, aveva messo in mora le fragilità occidentali. Ma, anche in quel caso, la critica era ingiusta. Se l’Europa e gli Stati Uniti avessero mantenuto (sussidiandole) queste produzioni, esse sarebbero state proporzionali alla domanda pre-Covid, diversi ordini di grandezza inferiori agli attuali. Riconvertire le fabbriche, installare i macchinari e addestrare gli operai avrebbe (come ha) richiesto del tempo. E, se ancora oggi questi beni provengono in gran parte dal Far East, il motivo è che qui da noi ci sono utilizzi assai più produttivi delle risorse finanziarie, umane e fisiche. Proprio la storia del Covid e dei vaccini ci insegna quali e quanti siano i benefici della divisione internazionale del lavoro.

 

Certo, questo comporta pure dei rischi che, in parte, possono essere mitigati: il blocco di Suez ci ha rinfrescato una lezione che avevamo appreso con la crisi del 1956 e ripassato nel 1967 con la Guerra dei sei giorni e la chiusura del canale per ben otto anni. Ci siamo ricordati di quanto siano strategiche talune vie di comunicazione e quanto sia importante tenere conto degli eventi poco probabili ma potenzialmente distruttivi. Ciò non significa rinnegare gli enormi vantaggi della moderna organizzazione delle filiere produttive: d’altronde il fatto che il commercio internazionale abbia retto alla crisi del coronavirus e anzi abbia contribuito a ridurne gli impatti conferma quanto esso sia solido e interconnesso. Ancora una volta, la notizia della fine della globalizzazione è grandemente esagerata.