A Davos i leader indicano soluzioni differenti a problemi comuni

Luciana Grosso

I temi della crisi sono comuni, ma le ricette proposte molto diverse, condite per giunta da messaggi incrociati e vagamente minacciosi

È un quadro confuso quello che si è dipinto, quest’anno, al Forum di Davos. Certo, la direzione che il meeting annuale dell'economia ha indicato è chiara: la ripartenza. Una ripartenza possibile solo con un’economia che si riprenda dal post Covid, con la lotta al cambiamento climatico (è intervenuta anche Greta Thunberg, con un breve video), con l’attenzione per la salute delle persone; con la parità di diritti tra donne e uomini; con la gestione delle tecnologie e del loro progresso, che va sfruttato e guidato, invece che subito. Una diagnosi molto lucida, uno scenario molto chiaro, dal quale appare facile trarre una lista di cose da fare che siano condivise e condivisibili. Il problema però è che questa lista non c’è. Anzi, c’è il suo opposto dal momento che i leader del mondo che hanno sfilato nei monitor di questa edizione tutta virtuale del Forum hanno indicato soluzioni differenti a problemi comuni. 

   

C’è stato Xi Jinping che ha detto di  avere ottime intenzioni di risolvere la guerra commerciale e di partecipare a un mondo che sia più multilaterale possibile, ma a patto che, finito di commerciare, ogni Paese si faccia i fatti suoi e che nessuno si intrometta nel modo in cui il suo governo gestisce la sua Cina; c’è stata Angela Merkel che ha detto che il multilateralismo è una cosa bellissima e che non esiste progresso senza di esso, ma che questo non può prescindere da trasparenza e diritti umani; c’è stata Ursula Von der Leyen, che ha tracciato i tratti di un mondo in cui la rivoluzione verde e la lotta al cambiamento climatico non sono ideali e volontà, ma progetti e necessità, in caso contrario non ci sarebbe più Recovery Plan che tenga, e che ha detto, senza girarci troppo intorno, che lo strapotere delle aziende tecnologiche costituisce un pericolo per la tenuta degli stati democratici; c’è stato Emmanuel Macron che ha detto che il capitalismo che ha condotto il mondo fin qui ha esaurito la sua missione di diffusione di ricchezza e che ora deve farsi da parte, per lasciare spazio a nuovi modelli, basati sulla fine delle iniquità e del disagio sociale; c’è stato Vladimir Putin che, in un lungo e un po’ pauroso discorso,  ha detto che l’occidente è pieno zeppo di tensioni e iniquità e che le crisi economiche, basta un attimo, e possono trasformarsi in crisi di democrazia; c’è stato Benjamin Netanyahu che ha detto quanto il suo paese sia all’avanguardia nel programma di vaccinazioni, e che vuole diventare il più grande laboratorio al mondo sull'immunità di gregge; c’è stato Narendra Modi che ha detto che la sua India se l’è cavato molto bene con il contenimento del contagio da CoVid e che, di recente, ha fatto enormi investimenti in tecnologia, tanto grandi che se è vero che ‘Another World is Possibile”, questo World prossimo venturo dovrà tenere conto dell’India, più di quanto ha fatto sino ad ora. 

   

Problemi comuni, ricette diverse, condite per giunta, da messaggi incrociati e vagamente minacciosi. Il che è un paradosso, se si pensa che mantra dell’anno è stato quello di un antico pallino di Schwab, lo Stakeholder Capitalism, ossia la convinzione che le grandi aziende non debbano e non possano rispondere solo agli azionisti, come nel capitalismo ordinario, ma alle comunità intere, alle persone, all’ambiente, alle società, specie alle fasce di popolazione che sono  più fragili ed emarginate e che, a questo punto è evidente, sono quelle che pagano il prezzo più alto delle crisi. Secondo Schwab, "La maggior parte delle persone vuole fare del bene. Ma ciò che è mancato negli ultimi decenni è una bussola chiara per guidare coloro che occupano posizioni di rilievo nella nostra società ed economia ". A quanto pare, manca ancora.

 

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