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Perché non c'è Recovery sull'Italia senza una rivoluzione non demagogica sull'Ilva

Umberto Minopoli

L'obiettivo di decarbonizzare la produzione siderurgica resta una meta tecnologica ancora allo stato di ricerca e sperimentazione e realizzabile con gradualità. Al momento è improponibile sostituire gli altoforni con i forni elettrici

Con o senza Arcelor-Mittal, dovrebbe essere abbastanza chiaro come si salva Ilva: qualunque sarà la proprietà o la gestione (pubblica, privata o mista) occorre raggiungere, in tempi ragionevoli e con un piano di investimenti certi, dieci milioni di tonnellate di produzione, il target per la sopravvivenza, nel tempo, dello stabilimento. Su questa banale considerazione hanno convenuto manager dell’Ilva e sindacati in un recente convegno al Cnel di Tiziano Treu. Senza tale condizione non ha senso parlare di sopravvivenza dell’Ilva (e della siderurgia in Italia). E, tanto meno, ha senso parlare di “acciaio verde”. Le risorse del Recovery fund, nel contesto dell’European Green Deal, stanno comprensibilmente allettando i produttori siderurgici europei. Nella competizione in atto sui mercati dell’acciaio, esasperata dalla recessione, la quantità e qualità delle emissioni si avvia a diventare un’arma protettiva contro l’invasione delle produzioni asiatiche aggressive. Purtuttavia, l’obiettivo di decarbonizzare la produzione siderurgica resta una meta tecnologica ancora allo stato di ricerca e sperimentazione (ad esempio nell’uso dell’idrogeno come combustibile o sorgente di energia al posto del carbone e del gas) e realizzabile con gradualità inevitabile, in tempi ragionevoli e, ovviamente, con gli stabilimenti siderurgici europei in operatività attivi e competitivi. Vale per Taranto, il più grande centro siderurgico europeo e dell’area del Mediterraneo, non meno che per ogni altra siderurgia del continente. Molti ambientalisti non integralisti l’hanno capito.

 

Il ministro Patuanelli, quasi solitario nell’attuale governo, ha ricordato che è un non senso parlare di sostenibilità ambientale della siderurgia a Taranto che non sia, anche, sostenibilità economica. Vivaddio. E tuttavia, hanno sostenuto manager e sindacalisti, solo in Italia e sullo stabilimento pugliese circolano, specie a opera di politici superficiali, retro pensieri, sfacciate semplificazioni e azzardate bugie. Come quella che la sostituzione dell’idrogeno al carbone e al gas sia un processo disponibile e fattibile allo stato attuale, oppure che Ilva a Taranto possa sopravvivere chiudendo l’area a caldo e la produzione da altoforno, ritenute le fasi più inquinanti dell’attività produttiva dello stabilimento. Una chimera. Pericolosissima secondo i convenuti al Cnel.

 

L’acciaio, come è noto, è un prodotto di trasformazione: non si trova in natura. E’, sostanzialmente, una lega artificiale di ferro e carbonio prodotta in un processo di varie e successive fusioni ad altissime temperature. Che, insieme, nel ciclo industriale della siderurgia si chiama “area a caldo”. A Taranto (e nei principali centri siderurgici del mondo) questo processo è parte del ciclo integrale: il minerale di ferro, trattato e fuso (altoforno) col carbonio e altri metalli minori, viene trasformato in ghisa e poi in acciaio grezzo (area a caldo) e, infine, verticalizzato (area a freddo) nei prodotti finali che servono all’edilizia, all’industria automobilistica, degli elettrodomestici e così via. Spezzare e separare questo processo integrale sarebbe un non sense industriale ed economico. L’area a caldo degli stabilimenti siderurgici tradizionali, non superabile, si può certamente ristrutturare e ridisegnare: ambientalizzando alcune parti del ciclo (aree minerarie, parchi carbone, pre-trattamenti dei materiali), innovando i cicli fusori e anche accompagnando alla produzione da altoforno una diversa modalità di produzione, chiamata elettrosiderurgia.

 

Nel piano Ilva elaborato da Federmanager e discusso al Cnel, le 10 milioni di tonnellate, essenziali per la sopravvivenza di Taranto, si dovrebbero raggiungere, in parte, con gli altoforni esistenti (8 milioni) e, in parte, con due nuovi forni “ad arco elettrico” (2 milioni). Questa configurazione dell’Ilva a regime potrebbe garantire (magistratura permettendo) la competitività dello stabilimento e il mantenimento in attività di tutti i suoi addetti attuali. Un malinteso ambientalismo contrappone ciclo integrale (con altoforni, area a caldo e uso del carbonio) all’elettrosiderurgia. Che, al contrario, è anch’essa un processo che contiene un’area a caldo e produce l’acciaio, inesorabilmente, come lega di ferro e carbonio. Il “forno elettrico” ha alcuni vantaggi: produce partendo da “rottami di ferro” (che però ha sempre bisogno di mixare con carbonio, attraverso l’utilizzo di ghisa o di residui di acciai speciali, dunque di prodotti da altoforno) e non dal minerale grezzo; dà vita ad acciai particolari (più “legati”, come si dice, e di maggior pregio). La qualità serve a sopperire, però, i pesanti svantaggi dell’elettrosiderurgia: la difficoltà ad approvvigionarsi del costosissimo rottame di ferro e a sopportare il costo proibitivo dell’energia consumata nel processo. Per questo l’acciaio prodotto nei forni elettrici resta un prodotto di nicchia. Taranto non può, perciò, sostituire gli altoforni con i forni elettrici: non reggerebbe la produzione di massa dello stabilimento e, conseguentemente, il numero degli addetti e la competitività dell’impianto. Un giusto ed equilibrato mix di altoforni e forni elettrici è l’unico che garantisce un assetto realistico e confortante.

 

Un interessante quesito è emerso nella discussione del Cnel: lo stato attuale degli impianti, che è il vero problema dell’acciaieria. La sostituzione delle gestioni straordinarie all’Ilva privata, che data quasi un decennio, ha significato uno spaventoso, a detta di manager e sindacati, arresto e declino della manutenzione, il degrado di impianti e settori di produzione, l’impoverimento e la perdita di efficacia ed efficienza dell’intero ciclo dello stabilimento. Al punto, si è detto, che rilanciare Ilva equivale, ormai, a ricostruirla. Taranto e gli altri stabilimenti siderurgici italiani vennero costruiti, ai tempi, da una grande riserva di capacità progettuali e di ingegneria, raccolti nell’Italimpianti a partecipazione statale. Che fu un vero campione nazionale, indispensabile nel rendere unica e competitiva l’Italia nel campo delle grandi infrastrutture e degli impianti complessi. Chi assolve oggi a questa funzione? L’interrogativo vale per l’Ilva ma potrebbe valere per l’intero piano di grandi infrastrutture di mobilità e trasporti di cui ha parlato, in questi giorni, la ministra De Micheli. Il Ponte san Giorgio ha dimostrato che, nell’area dell’industria pubblica e privata del nostro paese le capacità, progettuali e ingegneristiche, per ricreare una nuova Italimpianti non mancano. Pensiamo alla Fincantieri Infrastructure o all’Ansaldo Energia in campo pubblico o alla Danieli in quello privato. La ristrutturazione di Taranto potrebbe davvero essere l’occasione per ricostruire un campione italiano nella grande ingegneria e nella realizzazione di sistemi complessi.

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