Da Termini Imerese a Taranto, Invitalia diventa la nuova Gepi

Stefano Cingolani

Dopo il disastro dell’auto elettrica in Sicilia, si vuole consegnare l’Ilva ad Arcuri (che non è proprio Oscar Sinigaglia)

Roma. Che cos’hanno in comune Domenico Arcuri e Oscar Sinigaglia? Non molto visti i tempi, l’anagrafe, la geografia, l’educazione. Ma almeno in tre momenti fondamentali la loro biografia trova incroci inattesi: le catastrofi, l’Ilva e lo Stato imprenditore. Nato a Roma da una famiglia ebraica, Sinigaglia nel 1908 aveva assistito le vittime del devastante terremoto di Messina. Nel 1930 era stato incaricato di salvare e ristrutturare la siderurgia italiana travolta dalla grande depressione e nel 1933 divenne presidente dell’Ilva controllata dall’Iri creata da Alberto Beneduce. Con le leggi razziali del 1938 il regime fascista lo estromise dalla vita pubblica. Tornò nel 1945 chiamato a riorganizzare la filiera dell’acciaio.

   

Dopo la sua performance sulle mascherine, Arcuri, calabrese con studi e carriera a Roma, ha in mano come commissario del governo la sorte dell’Ilva di Taranto. Tocca a lui richiamare la ArcelorMiìttal al rispetto dell’accordo, toccherà a lui anche liquidare la multinazionale con il plauso del coro statalista, dai sindacati alle amministrazioni locali? Con quanti denari e con quale mandato? I suoi sostenitori, a cominciare dai pentastellati, vogliono che ridimensioni il centro siderurgico pugliese in nome dell’ambiente, anche a costo di licenziare migliaia di lavoratori che verrebbero in tal caso, assistiti dallo stato. Giuseppe Conte si fida di Arcuri, il quale ormai da 13 anni amministra Invitalia, la società pubblica che ha messo insieme i pezzi dello stato imprenditore, salvatore e assistente sociale. Ce la farà ad assolvere l’arduo compito? E Invitalia è davvero attrezzata per gestire complesse strutture industriali? C’è da dubitarne.

 

Facciamo un rapido salto a Termini Imerese, a soli 33 chilometri da Palermo. E’ finito di nuovo agli arresti per bancarotta fraudolenta, riciclaggio e autoriciclaggio, Roberto Ginatta, 73 anni, imprenditore torinese che doveva rilanciare quel che resta dello stabilimento Fiat, con i 16,5 milioni di euro erogati dalla regione Sicilia attraverso Invitalia. E’ una lunga storia che risale a quando Sergio Marchionne nel 2010 decise di chiudere l’impianto nato nel 1967 e aperto nel 1970 sotto la pressione sia del governo centrale sia della regione che partecipava alla società Sicilfiat con il 40 per cento (il resto era del gruppo torinese). Fu una delle ultime scelte alle quali aveva cercato di resistere Vittorio Valletta prima di cedere lo scettro a Gianni Agnelli il quale, invece, si dimostrò sensibile alle sirene della politica. Sempre per ragioni politiche, mentre a capo del governo c’era Silvio Berlusconi, si decise di riconvertire l’impianto. Cinque anni dopo (a palazzo Chigi è arrivato nel frattempo Matteo Renzi) nasce Blutec con i soldi pubblici per produrre auto elettriche. Vengono assunti 90 operai in cassa integrazione, il progetto non decolla, i fondi si squagliano, nel marzo 2019 Ginatta viene arrestato, la finanza sequestra la società affidata a un amministratore giudiziario. Davvero Invitalia poteva credere di fare la Tesla italiana a Termini Imerese, di fabbricare in quel modo l’auto elettrica per la quale persino la Volkswagen pena a trovare fondi sufficienti? Altro che stato imprenditore, qui non ha funzionato nemmeno lo stato controllore.

 

Invitalia ha incrociato la Fiat non solo in Sicilia, ma anche in Campania a Flumeri (Avellino) dove la Iveco costruiva autobus insieme alla Renault. Nel 2011 Marchionne chiude i battenti anche qui per mancanza di commesse sufficienti a tenere in piedi l’impianto, le attività vengono spostate ad Annonay in Francia. Nel 2016 interviene la Menarini che produce autobus a Bologna dal 1919, insieme alla Finmeccanica (ora Leonardo) e Invitalia, con la partecipazione di una società turca la Karsan. La produzione viene decentrata per lo più in Turchia, ma la domanda langue. Nel gennaio 2019 l’assemblea straordinaria ripiana le perdite e aumenta il capitale per 30 milioni, 21 dei quali in capo ai vecchi soci e 9 da parte di un nuovo partner industriale da individuare. Il nuovo socio non arriva, Invitalia detiene la quota principale insieme a Leonardo, e la Industria Italiana Autobus diventa uno dei tavoli di crisi al Ministero dello sviluppo economico. Generoso Maraia, deputato irpino per il M5S, il 19 maggio ha annunciato che parte una commessa per 600 nuovi autobus. I lavoratori incrociano le dita.

 

Secondo una tesi benevola, l’agenzia nata per attrarre investimenti e favorire lo sviluppo di imprese ha funzionato finché si è attenuta al compito originario, ma quando si è trasformata in una nuova Gepi ha incontrato i suoi limiti. Nata nel 1999 come Sviluppo Italia sotto il governo guidato da Massimo D’Alema, ha raccolto molti cocci dell’interventismo pubblico: SPI (ex Iri), Itainvest (ex Gepi), IG (per l’imprenditorialità giovanile), Insud (promozione e sviluppo di imprese turistiche e termali), Ribs (strumento operativo del Ministero dell’agricoltura sul risanamento agro-industriale zuccheri), ENI-Sud, Finagra (promozione nel settore agro alimentare). Nel 2003 la sua missione s’allarga anche all’attrazione di investimenti esteri. Dal 2007 diventa Invitalia e viene guidata da Arcuri. All’inizio i risultati non mancano: tra gennaio 2013 e settembre 2014 contribuisce, con i contratti di sviluppo, all’insediamento di multinazionali come Rolls-Royce, Unilever, Vodafone, Enterra, Sasol e Bridgestone, attivando investimenti esteri per circa 250 milioni di euro, uniti ai 166 stanziati da Invitalia. E’ il momento in cui i governi di centro-sinistra aprono al capitale straniero oggi messo alla porta dai nazional-populisti (Lega, Fratelli d’Italia e Cinquestelle qui fanno fronte comune) i quali vogliono che lo stato prenda direttamente in mano il timone. A questo punto entra in campo il principio di Peter secondo il quale “in ogni gerarchia si sale sempre fino al livello della propria incompetenza”. Invitalia si è infilata anche nelle relazioni commerciali con l’Iran al posto della Sace che non intendeva assumersi rischi troppo alti. Ma il rischio più alto sarà guidare l’Ilva, con tutti gli ayatollah che circolano tra Taranto e Bari.

Di più su questi argomenti: