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Perché il Covid riacutizza i problemi dell'occupazione femminile

Francesco Aldo Tucci

L’Italia continua a essere il paese sviluppato dove le donne lavorano meno (appena una su due). E ora può andare peggio

A fine 2019 il tasso di occupazione femminile era pari al 50,2 per cento. Nonostante ripetuti e accorati appelli degli studiosi nel corso degli anni, l’Italia rimane nelle ultime posizioni rispetto ai paesi avanzati. Per capire l’entità del divario, si pensi che ci troviamo sistematicamente al di sotto della media Ocse. Solo Grecia, Messico e Turchia fanno peggio. Prendiamo come riferimento la Spagna, paese a noi molto simile. Se a inizio anni duemila eravamo agli stessi livelli di occupazione femminile (circa il 40 per cento), in questi venti anni si è creato un notevole divario: siamo 8 punti percentuali dietro. Il confronto diventa impietoso con la Francia (13 punti in meno: 50,2 vs 62,9 per cento) e, ancor di più, la Germania (ben 23 punti di differenza rispetto al 73 per cento tedesco). La situazione non migliora se si guarda al tasso di disoccupazione (11,8 per cento nel 2018) o al tasso di partecipazione alla forza lavoro: nonostante gli enormi progressi, dal desolante 25 per cento degli anni ‘60 al 40 per cento attuale, l’Italia si trova ancora ad almeno 10 punti di distanza da Spagna, Francia e Germania.

 

Nel complesso questi numeri evidenziano l’esiguo coinvolgimento delle donne nella nostra economia –il che si traduce in scarsa indipendenza economica e particolare fragilità in tempi difficili. Una situazione che preoccupa molti economisti, considerato che l’attuale crisi potrebbe avere pesanti conseguenze per le disuguaglianze di genere, come mostrano alcune ricerche preliminari. Per quanto riguarda l’Italia, sebbene nel policy brief di aprile l’Inapp abbia stimato come inizialmente l’occupazione femminile fosse stata meno danneggiata dalle misure di lockdown (40,2 per cento contro il 43,8 di quella maschile), perché nei settori interessati dalla chiusura, come il manifatturiero, l’occupazione maschile ha maggiore incidenza, questo non è sufficiente per un giudizio complessivo.

 

Per quanto riguarda la riapertura della “fase 2”, come prevista dal Dpcm del 26 aprile, i primi dati disponibili evidenziano come le donne rappresentassero la maggioranza (52,6 per cento) dei 2,7 milioni di lavoratori rimasti “sospesi”. Questo perché il decreto escludeva occupazioni legate ad esempio al benessere, come parrucchiere ed estetiste, riaperte solo il 18 maggio. Anche ora che tutti o quasi sono tornati al lavoro, rimangono i molti oneri che gravano in misura diseguale sulle donne, anche quando lavorano: lavoro domestico, assistenza familiare e cura dei figli. Secondo un rapporto Istat, il 36 per cento delle madri ha problemi di conciliazione tra lavoro e famiglia e più del 38 per cento ha dovuto modificare aspetti della propria professione per questo: tre volte tanto rispetto agli uomini. Simile discorso per il ricorso al part-time. Con le scuole chiuse, l’onere è aumentato sensibilmente. Così rileva un’indagine condotta da ricercatrici dell’Università di Torino, del Collegio Carlo Alberto e della Bocconi. I risultati, anticipati in un articolo per Lavoce, mostrano come il 68 per cento delle donne ha dedicato più tempo al lavoro domestico durante la quarantena. Il problema non è solo culturale (ruoli di genere), ma anche di inadeguata struttura del mercato del lavoro.

 

Cosa fare? Alcune delle misure previste dal “decreto Rilancio” vanno nella giusta direzione, anche se insufficienti. Serve incentivare il ricorso allo smart-working; ampliare il congedo parentale (soprattutto maschile) e il bonus baby-sitting; riorganizzare –e ridurre– la tassazione su lavoratori e imprese, per stimolare sia la domanda che l’offerta di lavoro. Niente di nuovo: basti pensare alle raccomandazioni che l’Ocse e molti economisti ci ricordano periodicamente.

 

Stimolare e facilitare l’occupazione femminile non è “solo” una questione di parità di genere: è fondamentale far sì che possano contribuire pienamente e liberamente alla vita economica del paese, per il bene di tutti.