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Perché la sicurezza delle imprese è un investimento, non un costo

Barbara D'Amico

Le aziende, almeno quelle lombarde, stanno abbandonando l’idea di un inevitabile trade off tra sicurezza e crescita. Resta da chiedersi quando lo capirà la politica

Torino. Meglio non pensarci. Meglio non immaginare il conto astronomico in termini di soldi e impatto sociale che avrà il non aver investito per tempo, cioè prima della pandemia, in sicurezza sul lavoro. Una scelta che adesso, a pochissimi giorni dal timido allentamento del lockdown per le imprese, potrebbe pesare come una zavorra sulla ripresa economica. Che servisse lo scenario peggiore per aprire gli occhi sull’inefficienza dell’approccio “o la salute o il lavoro” lo dimostra l’aver ignorato i segnali pregressi. Come l’alto numero di dipendenti, addetti, operai, infortunati o morti per scarse o assenti misure di sicurezza ma impiegati comunque per mantenere efficienti e produttive aziende e filiere in nome di un presunto risparmio sui bilanci nazionali e aziendali.

 

Solo nel 2019 abbiamo toccato quota 61 mila 310 denunce di infortunio e, dato orribile, 1089 morti. Numeri gravi non solo per il valore della vita umana ma per il rischio fatto correre all’economia. Nel 2017, l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro aveva calcolato il peso, sui bilanci degli Stati membri, dei costi indiretti dei mancati investimenti in sicurezza: ben 476 miliardi di euro. All’anno.

 

Ora la contagiosità del coronavirus è una minaccia aggiuntiva, da cui le imprese dovranno imparare a difendersi per tornare a fatturare senza mettere in pericolo i propri addetti. Ma in che modo? A dispetto delle dichiarazioni, il governo sta scaricando sulle imprese buona parte della gestione del rischio della fase 2, quella di coabitazione con il virus. Nel decreto Cura Italia sono stati previsti 50 milioni di euro di contributi per acquistare dispositivi e mascherine per i lavoratori e il credito d’imposta per le spese di sanificazione di uffici, negozi, fabbriche. Eppure la sicurezza non si esaurisce in queste azioni, come dimostrano le nutrite indicazioni e misure dei protocolli tecnici dell’Inail e del governo. In altre parole. Chi deve riorganizzare in chiave di tutela l’intera produzione dovrà usare soldi propri o chiedere prestiti.

 

La tendenza a vedere la sicurezza come un costo e non come un investimento è difficile da sradicare. Il 2 aprile 2019 Luigi Di Maio, allora ministro del Lavoro, annunciava su Twitter di aver abbassato le tariffe obbligatorie Inail del 30 per cento. “Per la prima volta dare lavoro in Italia costerà meno!”, spiegava, riferendosi ai soldi risparmiati dalle imprese che avrebbero dovuto usarli per assumere. Come se fosse stato necessario alimentare la competizione tra salute e creazione di posti. La limatura era del tutto legittima, approvata dalla Corte dei Conti e forse anche giusta nei confronti di aziende virtuose che avrebbero pagato un premio più basso per le assicurazioni. Ma inopportuna sul piano della cultura del lavoro che uno stato dovrebbe promuovere. Senza contare che alle denunce di infortunio ordinarie ora si aggiungeranno quelle da Covid-19. Ecco perché le imprese sono impreparate alla riapertura del 4 maggio. Su un totale di circa 4,8 milioni di attività censite nel 2017, l’Istat ha calcolato che sono quasi 2,3 milioni quelle oggi sospese, mentre le restanti hanno continuato a lavorare a marce ridotte. In ogni caso, tutte devono applicare protocolli di protezione impensabili fino a pochi mesi fa, per garantire 17 milioni di lavoratori.

 

“In realtà nessun imprenditore può azzerare il rischio del contagio, non è nel suo controllo, ma può fare tutto ciò che è nelle sue forze per mitigarlo”, spiega al Foglio Paola Guerra, esperta di etica e sicurezza sul lavoro e membro del comitato creato da Assolombarda per guidare le aziende nell’applicazione delle misure di contenimento. “Molte aziende opteranno per mantenere lo smart working, una delle soluzioni più efficienti. Una società che ha uffici su sei piani e 700 dipendenti se volesse far rientrare il personale dovrebbe sanificare gli ambienti due volte al giorno, attività costosa. Ci sono sforzi incredibili da parte dei management per garantire il massimo della sicurezza e la piena produttività, elementi non in conflitto”. Le aziende, almeno quelle lombarde, stanno abbandonando l’idea di un inevitabile trade off tra sicurezza e crescita. Resta da chiedersi quando lo capirà la politica. Ma forse meglio non pensarci e mettersi al lavoro.

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