Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Settori essenziali e non essenziali. Cosa non torna nei conti di Conte

Paolo Manasse*

Per decidere il premier avrebbe dovuto utilizzare le informazioni disponibili nelle tavole input-output dell'Istat (altro che Ateco). Invece sembra essersi affidato alle convinzioni dei ministri e alle istanze corporative di Confindustria e sindacati

Le disposizioni del presidente del Consiglio, annunciate sabato sera su Facebook, in merito alla chiusura delle cosiddette attività non essenziali hanno provocato, com’era prevedibile, fortissime polemiche. Dai banchi (si fa per dire) dell’opposizione la destra sovranista, dopo aver invocato “la chiusura totale” di ogni attività produttiva, ora grida allo scandalo per la sospensione della democrazia e del Parlamento. Preoccupazione legittima anche quando proviene da chi, in tempi recenti, avocava a se’ “pieni poteri”. Landini e la Cgil invece hanno accusato il governo di aver violato gli accordi presi, introducendo sottobanco nuovi settori alle attività considerate “essenziali”, e dunque essersi piegato alle pressioni della Confindustria; i metalmeccanici hanno minacciato uno sciopero (che ci si augura si svolgerà eventualmente su Skype). La Confindustria ha accusato il governo di rischiare di portare l’economia al tracollo. Chi ha ragione?

 

È comprensibile che il governo stia prendendo misure di emergenza, anche se è difficile evitare l’impressione che queste misure siano tardive e che gli errori e i ritardi nel tracciare il contagio siano stati imperdonabili. E tuttavia il governo deve ora rispondere alla seguente domanda: visto che ha deciso di non fermare interamente l’economia, in base a quale criteri e strumenti è stata compiuta la scelta delle attività “essenziali”? Una risposta è necessaria per due ragioni. La prima ragione è che le scelte vanno motivate davanti all’opinione pubblica. La seconda è che va fugato il sospetto che la “lista” sia stata il frutto di un compromesso tra interessi particolari, piuttosto che della tutela degli interessi generali.

 

Criteri diversi implicano diverse scelte. Se l’obiettivo è quello di arrestare la diffusione del contagio allora si può usare il criterio di limitare la concentrazione di persone negli spazi di lavoro; se è quello di tutelare i soggetti più esposti, si può considerare l’età massima dei lavoratori, oltre la quale prevedere un congedo forzoso. Oppure adottare regole differenziate per diverse regioni, e così via. Tutti criteri che prescindono dal settore produttivo.

 

La scelta di alcuni settori economici invece è più complessa, soprattutto se viene fatta senza strumenti adeguati. Questa complessità nasce dalle connessioni tra i settori produttivi prodotta dalla catena degli input intermedi. Mi si consenta, In quanto economista, di utilizzare un esempio numerico per mostrare, anche in un caso molto semplice, come sia ingannevole affidarsi a giudizi affrettati. Consideriamo una ipotetica economia composta da 2 soli settori, quello agricolo (A) che produce grano e quello manifatturiero (M) che produce aratri. Il settore agricolo impiega intensivamente altri beni agricoli come input intermedi: ci vogliono 0.5 chili di grano e 0.3 aratri per produrre un chilo di grano. Invece i beni manufatti, sono relativamente intensivi di (altri) beni manufatti: sono necessari 0.5 beni manufatti e solo 0.3 chili di grano per produrre un aratro. Possiamo allora concludere che sia possibile in emergenza limitare la produzione della manifattura perché “meno importante” nella produzione agricola? Ovviamente no: la produzione di grano richiede aratri e grano che a loro volta richiedono altro grano e altri aratri e così via. Un semplice calcolo mostra che per produrre 1 chilo di grano per il consumo finale questa economia stilizzata deve produrre 1.9 aratri e chili 3.1 di grano (di cui 2.1 da destinare alla produzione di beni intermedi nei due settori). Imporre dei limiti sulla produzione di aratri genererebbe una immediata caduta nella produzione di grano con un immediato aumento del suo prezzo (e di quello degli aratri).

 

Naturalmente il mondo è molto più complicato del mio esempio e le “filiere”, nazionali ed estere, molto più complesse ed estese. Ancora più importante è allora che le decisioni del governo si fondino sull’analisi delle interdipendenze settoriali, le Tavole input-output, rese disponibili dall’ISTAT nel 2017. Il metodo utilizzato nell’esercizio numerico permetterebbe ad esempio di scoprire che un bene intermedio che non è direttamente impiegato nella produzione alimentare è invece “essenziale” perché entra in modo intensivo nella produzione di altri beni intermedi che servono a produrre altri beni intermedi… che sono impiegati nel settore alimentare.

Mi chiedo allora: nella scelta dei settori “essenziali” il governo ha utilizzato le informazioni disponibili nelle Tavole input-output? Oppure si è basato sulle convinzioni personali dei propri ministri e sulle istanze corporative di Confindustria e sindacati? Temo la seconda che ho detto.

 

*Università di Bologna

Di più su questi argomenti: