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Perché la crisi demografica si combatte creando più lavoro

Veronica De Romanis

L’esperienza internazionale dimostra che nei paesi dove le donne lavorano si fanno più figli. Tre punti per una nuova agenda

Dopo il segno meno del prodotto interno lordo (-0,3 per cento nel quarto trimestre), del mercato del lavoro (-75mila occupati a dicembre), della produzione industriale (-2,7 per cento su base congiunturale e - 4,3 per cento su base annua), è arrivato anche quello della popolazione: i residenti sono diminuiti di 116 mila unità rispetto al 2019. Questo dato è allarmante. Peraltro, secondo l’Eurostat, le cose non potranno che peggiorare. Nel 2050, l’istituto di statistica europeo stima che l’Italia sarà il paese più vecchio (l’età mediana è prevista salire dal 46,3 del 2018 al 52,2 contro il 46,9 della media europea) e con il minor numero di persone in età lavorativa per ogni pensionato (il dependency ratio è previsto arrivare a 64,7 contro 49,9 della media europea). Alla luce di questi numeri, la demografia dovrebbe essere in cima all’agenda di governo. Invertire la rotta è possibile. L’esperienza dei paesi che ci sono riusciti (a cominciare dalla Francia, e negli ultimi anni dalla Germania) dimostra che è necessario agire su tre livelli: le risorse, il lavoro, la crescita. Andiamo per ordine.

 

 

Primo, le risorse. La sfida della demografia costa. Eppure, le risorse continuano a essere davvero limitate. In una recente intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica, il ministro per la Famiglia Elena Bonetti ha spiegato che “sarà il ministero dell’Economia a fare i conti”. Il ministero i conti li ha fatti e ha deciso di destinare 1 miliardo (uno) alla Famiglia e 20 miliardi (venti) per 80 euro, Quota 100 e Reddito di cittadinanza”. Ha, inoltre, deciso, di finanziare queste spese (così come le altre) con maggiori tasse, maggiore debito e maggiore Iva futura per un totale di 47 miliardi di euro di clausole di salvaguardia. In un paese come l’Italia dove – oramai da anni – il problema delle coperture viene risolto ricorrendo alle clausole di salvaguardia che poi si trasformano in più debito (il disinnesco dei 23 miliardi di Iva anche quest’anno è avvenuto attraverso il ricorso al debito), non è facile avere dei progetti di vita, visto che il futuro viene ipotecato da chi governa. Una politica volta a incentivare la natalità – per essere credibile (almeno agli occhi dei potenziali beneficiari) – dovrebbe essere finanziata con coperture certe, esattamente come avviene negli altri paesi. Pertanto, Bonetti non dovrebbe limitarsi a affermare che “le coperture le troveremo”. La speranza non è mai una strategia di politica economica tantomeno quando è in gioco “il futuro del paese” per usare un’espressione del presidente Mattarella.

  


Affrontare la sfida della demografia richiede una svolta che, del resto, per un governo che si è autodefinito “governo della svolta” non dovrebbe essere così difficile. L’esperienza dei paesi che sono riusciti a invertire il trend dimostra che è necessario agire su tre livelli: le risorse, il lavoro, la crescita


   

Secondo, il lavoro. L’esperienza internazionale dimostra che nei paesi dove le donne lavorano si fanno più figli. Questa correlazione dovrebbe suggerire al governo una sola cosa: smetterla con la politica dei bonus. I bonus sono diventati, oramai, tantissimi. Ogni governo ne inventa uno: come dimenticare il terreno promesso dall’ex ministro del Lavoro Luigi Di Maio per chi ha in cantiere il terzo figlio (ma quante sono state, poi, le famiglie che ne hanno usufruito?). I bonus possono aiutare in maniera temporanea, ma difficilmente riescono a influenzare un progetto di vita. E, infatti, in Italia, il numero di figli per donna continua a restare tra i più bassi d’Europa (1,29 contro l’1,58 della media europea). Nonostante queste evidenze, anche questo esecutivo ha voluto introdurre il “suo” bonus: quello per l’asilo nido. Come ha spiegato Bonetti, da quest’anno si può ottenere “da 1500 a 3000 all’anno”. Altri bonus sono allo studio. Bonetti cita “un sostegno economico post maternità” che andrà concordato con la Ministra del Lavoro Catalfo. L’obiettivo è far risultare “conveniente tornare al lavoro”. E’ certamente vero che è necessario ridurre il numero di donne che decidono di lasciare la propria occupazione dopo il primo figlio (circa il 30 per cento). Tuttavia, ben più urgente del problema “dell’abbandono” del lavoro, vi è quello della “mancanza” di lavoro. In Italia, le donne che hanno un lavoro solo circa la metà di quelle che lo cercano (a dicembre, il tasso di occupazione femminile si è fermato al 50,4 per cento). Al Sud, sono circa un terzo. Queste cifre scendono vertiginosamente se ci si riferisce alle donne giovani. Cosa fare? E qui veniamo al terzo punto: la crescita.

 

Per combattere il crollo delle nascite attraverso la leva del lavoro, il paese deve tornare a crescere. Nel 2019, la crescita è stata dello 0,2 per cento contro l’1,4 della media europea. La manovra appena varata (circa 32 miliardi di euro) ha destinato oltre due terzi delle risorse al disinnesco (a debito) delle clausole di salvaguardia che servono a finanziare misure di tipo redistributivo, quindi spesa corrente. Nonostante i molti annunci, per gli investimenti è rimasto davvero poco: circa 3 miliardi di euro. E’ chiaro che una simile manovra difficilmente potrà incidere sul tasso di sviluppo del paese.

 

Affrontare la sfida della demografia richiede una svolta che, del resto, per un governo che si è autodefinito “governo della svolta” non dovrebbe essere così difficile. Il Conte 2 dovrebbe, innanzitutto, avere il coraggio di dire la verità. Da domani mattina, dovrebbe spiegare che il vero messaggio che arriva dai dati Istat è che il paese non può permettersi misure come Quota 100. In secondo luogo, dovrebbe cambiare l’agenda delle priorità. La spesa andrebbe ridotta (per far calare il debito) e ricomposta verso i comparti più produttivi come gli investimenti sia infrastrutturali che in ricerca e formazione. Il Conte 2, in sintesi, dovrebbe adottare una visione lunga. Sotto questo aspetto, la manifestazione organizzata dall’azionista di maggioranza – il Movimento 5 Stelle – contro i vitalizi non lascia ben sperare.