Al nord conviene che il sud inizi a correre, altrimenti il declino sarà inevitabile per tutta Italia

Giuseppe Bedeschi

L’enigma del Mezzogiorno che non cresce non è ancora stato risolto. Ma non ci sono solo ombre: la ripresa c’è, anche se debole e insufficiente. Il ruolo dello stato

“Mezzogiorno oggi. Le forme nuove di un problema vecchio”. Questo il titolo del fascicolo di ottobre-dicembre 1919 della rivista “Paradoxa” (diretta da Laura Paoletti), fascicolo curato da un eminente studioso di sociologia economica, Carlo Trigilia, con saggi di vari specialisti su diversi aspetti della società meridionale. “L’enigma Mezzogiorno” si intitola l’Introduzione di Trigilia. Perché enigma? Perché, dice l’autore, “a centocinquant’anni dall’Unità il Mezzogiorno resta il più grande nodo irrisolto dello sviluppo del paese. Un caso unico a livello europeo per la consistenza del divario e per la sua durata nel tempo, e quindi difficile da spiegare: una sorta di enigma per le scienze sociali”. Un enigma inquietante, perché “se le regioni del sud non saranno in grado di crescere sempre più con le proprie gambe, anche le prospettive del nord tenderanno a rattrappirsi ulteriormente”.

 

Diamo uno sguardo anzitutto ad alcuni dati economico-statistici. Con un terzo della popolazione italiana (circa 21 milioni di abitanti), il sud produce un quarto del pil complessivo e un quinto di quello del settore privato. Il pil per abitante è il 56 per cento di quello del centro-nord (dopo aver raggiunto la punta massima del 60 per cento nel 1975). Nel sud si concentra la metà dei disoccupati ufficiali italiani e due terzi di coloro che si trovano in condizioni di povertà relativa. Il tasso di occupazione ufficiale è del 47 per cento contro il 69 per cento del centro-nord, quello femminile è del 34 per cento contro il 61 del centro-nord. Produzione e occupazione hanno subito un ridimensionamento molto più forte negli anni della Grande Crisi dal 2008 al 2013, e le regioni meridionali sono quelle con il più alto livello di diseguaglianze sociali e con il tasso più elevato di povertà.

 

Forniti questi dati, Trigilia avverte che sono necessarie alcune considerazioni preliminari. La prima: sarebbe pressoché impossibile la tenuta di una società con questi numeri di occupazione, di reddito e di povertà se non ci fossero degli ammortizzatori che accrescono il reddito effettivo e permettono quindi un livello di consumi per abitante ben superiore a quello del reddito ufficiale. Trigilia ne segnala due. Il più rilevante di questi ammortizzatori ha a che fare con l’economia sommersa e il lavoro nero, e con l’economia criminale. Quest’ultima è ovviamente molto difficile da misurare, ma quella sommersa è stimata in circa un terzo del pil complessivo del Mezzogiorno. L’economia sommersa copre condizioni di evasione della normativa sul lavoro e sulla sicurezza, oltre che della contribuzione fiscale, e si accompagna a condizioni spesso inaccettabili di sfruttamento del lavoro. Inoltre altera la concorrenza e scoraggia iniziative economiche solide.

 

Un altro ammortizzatore (antico, purtroppo) è l’emigrazione. Questo fenomeno ha assunto caratteri nuovi, specie nell’ultimo quindicennio, perché ha coinvolto i giovani con livelli di istruzione più elevati (tra il 2000 e il 2015 sono emigrati 1,7 milioni di residenti nel sud, due terzi dei quali tra i 15 e i 34 anni e un terzo di laureati). Questo fenomeno priva il Mezzogiorno di quelle risorse che potrebbero alimentare uno sviluppo sano e innovativo.

 

Tutte ombre, dunque, e nessuna luce? No, nella società meridionale ci sono anche importanti fenomeni positivi (come documenta nel suo saggio L. Azzolina). Nell’ultimo triennio l’economia del Mezzogiorno ha mostrato una ripresa, sia pure debole e ancora insufficiente. Due, in particolare, sono gli elementi che vanno evidenziati. Il primo è l’apprezzabile recupero nel settore industriale nel suo complesso, e del manifatturiero in particolare. A Napoli mostrano una buona vitalità le filiere dell’abbigliamento e dell’agroalimentare, ma anche il polo aerospaziale, più legato all’alta tecnologia e all’innovazione. A Bari l’area industriale, con le sue specializzazioni nei settori dell’automotive, della meccanica e della chimica, ha preservato, nonostante il ridimensionamento, la capacità produttiva dei suoi maggiori impianti. Ciò anche grazie agli aiuti della Regione Puglia, che ha utilizzato i fondi comunitari. A Catania il polo della microlettronica, anche se non è stato all’altezza delle attese, è pur sempre una realtà importante, e diverse imprese del settore informatico (ma anche farmaceutico) sono cresciute innovando e internazionalizzandosi.

 

Ma è sul secondo aspetto della ripresa degli ultimi tre anni – quello relativo alla crescita del turismo – che le città meridionali hanno dato il loro maggiore contributo. Secondo gli ultimi rapporti Svimez il turismo al sud è cresciuto più che nel resto del paese, sia per valore aggiunto, sia per numero di viaggiatori, sia per spesa turistica. Un risultato che ha indotto gli estensori del rapporto annuale a considerare la crescita del turismo “un fattore di riequilibrio territoriale della crescita”.

 

E tuttavia questi sviluppi positivi non devono essere sopravalutati, perché la struttura industriale meridionale resta fragile, e si è fortemente indebolita anche in seguito alla crisi economica degli scorsi anni. Segnali eloquenti di questa fragilità, dice Trigilia, sono il contributo molto ridotto delle esportazioni e la bassa crescita della produttività. Ne discendono, tra l’altro, livelli troppo bassi di occupazione nel manifatturiero in rapporto alla popolazione.

 

Che fare? Aumentare le risorse che lo stato trasferisce al sud per favorirne lo sviluppo? Questa è la tesi di alcuni meridionalisti. Ma Trigilia fa osservare che la spesa pubblica nel Mezzogiorno (secondo stime della Banca d’Italia) ha alimentato nello scorso sessantennio trasferimenti netti annui a favore delle regioni meridionali con valori tra un quinto e un sesto del pil del Mezzogiorno, circa 60 miliardi di euro all’anno, scesi nell’ultimo decennio a circa 50. Con l’eccezione della Germania, non ci sono stati in Europa flussi simili. Tali risorse sono state allocate per il finanziamento di servizi pubblici essenziali, attraverso i trasferimenti agli enti locali e quelli per sicurezza e giustizia, e soprattutto per il welfare (istruzione, sanità, assistenza). Ma nel sud i servizi pubblici funzionano male, in media peggio che nel centro-nord. E’ lecito chiedersi allora, dice Trigilia, se non ci sia un difetto fondamentale nel trasferimento di risorse dal centro-nord al sud, nel senso che il potere centrale (il governo) dà, ma poi non controlla l’uso di tali risorse. Si può però obiettare: essendo ormai le regioni in Italia delle repubbliche autonome, quale tipo di controllo può essere esercitato?

Di più su questi argomenti: