Contratto spezzato, dipinto di Jeaurat Etienne (1699-1789)

Libertà e proprietà

Carlo Lottieri

Senza questi due pilastri prevale la volontà dei sovrani. Un festival a Piacenza

Nelle facoltà giuridiche si sa come il tema delle proprietà sia ormai in larga misura marginale: in nome del primato della solidarietà, della cultura, dell’ambiente. Esattamente come l’altro pilastro tradizionale della società libera, il contratto, la proprietà si trova insomma in uno stato comatoso. Dai più è vista come una sopravvivenza, che può ancora sussistere solo se limitata, messa sotto controllo, regolata.

 

La quarta edizione del “Festival della cultura della libertà” che si terrà a Piacenza nel fine settimana, per iniziativa di Confedilizia e con il sostegno del Foglio, intende richiamare l’attenzione su questa crisi, nella convinzione che la libertà individuale non possa sopravvivere dove la proprietà è solo il frutto della decisione dei legislatori.

 

 

Nelle varie sessioni il tema verrà esaminato da vari punti di vista. Si sottolineerà, ad esempio, quanto la proprietà sia diversa in Europa e in America. Basti ricordare come un giurista come Richard Epstein abbia scritto un volume per dimostrare come ogni regolazione comporti un qualche esproprio e, per questo, vi sia la necessità d’indennizzare le vittime di tale azione. Se sono proprietario di un terreno, ma il piano territoriale stabilisce che non io possa usare quel fondo in nessun modo (non possa cioè condurre attività agricole, non possa edificare, ecc.), è chiaro che come minimo mi spetta una compensazione per il danno subito. Negli Stati Uniti la posizione di Epstein è stata letta come estremista, ma al tempo stesso quella voce è sempre stata parte del dibattito. Nulla di simile, invece, è immaginabile in Europa.

 

Il dato cruciale è che da noi la dilatazione dello stato ha progressivamente indebolito l’istituto proprietario. Il crescere della legislazione e l’aumento del prelievo fiscale hanno mutato l’idea stessa di proprietà, così che oggi lo stato è il vero titolare di ogni bene e noi disponiamo di questa o quella somma fino a quando il ceto politico non decide che le cose devono andare altrimenti.

 

Questo sta suscitando ribellioni? No. E il motivo è facilmente comprensibile, se si considera che la cultura prevalente è intrisa di una profonda avversione per la libertà individuale e il regime di mercato. Per limitarsi a fare due nomi, in un suo libro di qualche anno fa Stefano Rodotà definì la proprietà come un diritto “terribile”, mentre un eminente storico e giudice costituzionale come Paolo Grossi ha spesso usato parole dure nei riguardi del diritto romano proprio per l’attenzione prestata al dominium, che per lo studioso fiorentino sarebbe invece da considerare un’anticipazione di perversioni individualistiche e “borghesi”.

 

A Piacenza si proverà a evidenziare, invece, come non vi sia più diritto dove la proprietà è ridotta al rango di una convenzione politica. Da vari punti di vista, si sottolineerà che dove la proprietà latita tutto finisce nelle mani dei governanti. Nelle società libere l’area di ciò che è di proprietà altrui delinea spazi che non posso valicare, ma dove questo viene meno le comunità diventano mandrie gestite da questo o da quello. Quella che prevale, alla fine, è la legge del più forte.

 

Molti pensatori liberali avevano ben chiaro questo: che dove il diritto di proprietà declina, il suo spazio è occupato dalla volontà dei sovrani. Ogni regola è dissolta e al suo posto s’impone una volontà arbitraria e oppressiva.

 

Lo stesso permanere, oggi, della proprietà dovrebbe farci riflettere, dato che nel nostro tempo la proprietà ha acquisito una duplice connotazione. Da un lato, essa rimane uno spazio di autonomia. Se posseggo una piccola casa editrice, posso in qualche modo diffondere ogni idea mi stia a cuore. Al tempo stesso, però, all’interno dei sistemi democratici gli uomini di stato hanno presto compreso come possedere qualcosa renda ognuno in qualche misura ricattabile, controllabile, sempre “sotto tiro”.

 

Per far rinascere la proprietà, allora, è necessario soprattutto dare nuove basi a questo istituto, in assenza del quale una società aperta e plurale non è neppure immaginabile.

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