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Dazi (un po' meno) amari tra Stati Uniti e Cina

Maurizio Stefanini

Con la stipula del primo accordo si prevedono nuove importazioni e il riconoscimento di una serie di tutele giuridiche. Ma attenzione alla discrezionalità della magistratura cinese. Parlano Montanari e Galli

Dopo due anni, un accordo in cinque punti mette termine alla guerra dei dazi tra Trump e la Cina. E il primo di questi punti riguarda la proprietà intellettuale, con la Cina che ha riconosciuto la necessità di istituire e attuare un sistema giuridico per proteggerla.

 

La Cina poi si impegna a importare dagli Stati Uniti beni per un valore non inferiore a 200 miliardi di dollari; Pechino e Washington hanno concordato sull’importanza di garantire un trasferimento di tecnologia a condizioni volontarie di mercato e hanno riconosciuto i rischi derivanti da operazioni forzate; le questioni relative ai tassi di cambio o alla trasparenza verranno sottoposte dal Segretario del Tesoro USA o dal Governatore della Banca popolare cinese alle disposizioni dell’accordo bilaterale di valutazione e risoluzione delle controversie stabilito nel capitolo 7, con possibilità di ulteriore arbitrato del Fmi; e la Cina si impegna entro il primo aprile a rimuovere nei confronti degli investitori stranieri le barriere nei settori titoli, gestione fondi, future, assicurativo vita, pensione e salute.

 

Vicepresidente (italiano) per gli Affari Internazionali di quella influente America for Tax Reform, che è stata considerata ispiratrice della riforma fiscale di Trump, ma al contempo critica verso le guerre dei dazi, editor di un International Property Rights Index e di un Intenational Trade Barrier Index, Lorenzo Montanari definisce questo accordo “un grandissimo risultato, che potrà sicuramente aiutare Trump a ottenere una riconferma per un secondo mandato. Non approviamo che si sia ricorso a una guerra dei dazi per arrivarci, ma l’esito è stato altamente positivo. Non solo si passerà da un scambio commerciale di 186 miliardi di beni e servizi nel 2017 a 263 miliardi nel 2020 e 309 miliardi nel 2021. Ancora più importante - sottolinea Montanari -, è che il governo cinese si sia impegnato a condurre una lotta dura contro la violazione della proprietà intellettuale e a bloccare il trasferimento forzato della tecnologia americana a imprese cinesi, a tutto vantaggio dell’innovazione. Secondo il nostro nuovo International Trade Barriere Index la Cina è oggi il paese più protezionista del mondo, assieme all'India”.

 

Qualche criticità è però individuata da Cesare Galli: professore all’Università di Parma, Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni, avvocato con grande esperienza in contenziosi riguardanti la Cina, e soprattutto esperto giuridico dell’Osservatorio della Unione Europea sulla contraffazione dei diritti di proprietà intellettuale. Secondo lui, effettivamente la Cina ha assunto degli impegni importanti. “In teoria la Cina aderendo al Wto aveva aderito anche alle regole di quell’accordo TRIDS che regola la proprietà intellettuale. Con questa intesa gli Stati Uniti hanno però imposto alcune specificazioni che per un occidentale sarebbero ovvie, ma per i cinesi no. Mentre per noi infatti una norma generale e astratta è sufficiente, in Cina non è così, per via della enorme discrezionalità concessa ai giudici, che in pratica applicano le norme solo quando ritengono conveniente applicarle. Adesso la Cina si impegna a ridurre questa discrezionalità, e ciò favorirà anche noi europei”.

 

Galli ci fa qualche esempio. “Emblematico è che il testo normativo si apra parlando dei Trade Secrets: i segreti commerciali. Viene fatta una lunga casistica di ipotesi nelle quali il giudice deve riconoscere che è stato violato il Trade Secret. In particolare, prevede espressamente che debbano essere sanzionate le Electronic Untrusions: un tema che per gli americani è particolarmente importante, come dimostra la vicenda Huawei. C’è poi un passaggio molto importante sulle prove giudiziarie. Viene espressamente stabilito che la prova indiziaria deve essere sempre ammessa e che addirittura in caso di indizi gravi, precisi e concordanti di violazione dei Trade Secrets scatta l'inversione dell’onere della prova. Tocca al soggetto accusato di violazione dimostrare che non ha violato. La Cina si impegna pure ad abolire una serie di oneri relativi sopratuttto alla notarizzazione di tutta la documentazione che deve essere prodotta nei giudizi, e che sono oggi una fonte di costi e di rallentamento della durata dei processi. Viene pure espressamente prevista una cosa che noi europei da anni lamentiamo nei rapporti con la Cina: il fatto che se i processi cinesi non sono normalmente troppo lunghi, c’è però una enorme difficoltà da parte dei giudici a dare le cosiddette misure di urgenza. Quelle che bloccano istantaneramente o quasi il compimento dell’illecito. Ancora, vengono eliminate delle regole relative all’accesso alla tutela penale, che oggi in Cina è ammesso soltanto quando l’illecito possa cagionare una perdita molto importante sul piano quantitativo”.

 

Tutto bene, dunque? Secondo Galli, no. “Un problema è che la magistratura cinese non è indipendente dalla politica, e ovviamente non è che si può imporre l’indipendenza della magistratura con un trattato internazionale. Quindi, il rischio che certe norme siamo scritte ma non applicate è forte. C’è inoltre una peculiarità che riguarda l’Europa, e l’Italia in particolare, e che si riferisce alle denominazione di origine. Come noi ben sappiamo, gli Stati Uniti in sostanza non la tutelano. Ammettono l'istituzione di marchi di certificazione, ma non la protezione delle Geografical Indications: salvo in casi molto particolari. Alla Cina viene ora paradossalmente imposto di non tutelare le indicazioni geografiche quando queste siano costituite da termini considerati generici, o se vi sono dei marchi anteriori terzi. E questo è un tema estremamente delicato, perché noi sappiamo benissimo che termini come Parmesan negli Stati Uniti vengono considerati generici”.