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Ilva ad Afo spento

Maria C. Cipolla

Il Tribunale chiede di spegnere l’altoforno: ora ArcelorMittal è più forte e lo stabilimento più fragile

Milano. Fino a due milioni di tonnellate di ghisa in meno l’anno e 3500 operai in Cassa integrazione straordinaria, tanto vale lo spegnimento dell’altoforno 2 dell’ex Ilva, ordinato dal giudice di Taranto Francesco Maccagnano. Il provvedimento è arrivato a 4 anni, tre mesi e sei giorni dalla prima ordinanza di sequestro in seguito alla morte dell’operaio Alessandro Morricella ma ha avuto effetto in meno di 24 ore. Ieri la Fim Cisl ha fatto sapere che ancora prima di conoscere il giudizio del Riesame sul provvedimento, ArcelorMittal ha comunicato la cifra della Cigs, che include anche gli attuali 1.273 lavoratori in cassa integrazione ordinaria. Il funereo calcolo i sindacati lo conoscevano già: “Per ogni milione di tonnellata di acciaio in meno di produzione, dai mille ai mille e cento lavoratori a rischio”, dice Giuseppe Romano della Fiom Cigl di Taranto. L’altoforno due ha una potenzialità di 2 milioni di tonnellate, su un totale che oggi non supera le 4,5. Una volta spento “si possono sfruttare gli altri due impianti, l’1 e il 4, gemelli al 2, ma non si andrà oltre ai 4 milioni di tonnellate”, spiegano le sigle sindacali. Mittal ha, insomma, usato il suo margine di manovra. Il prezzo lo pagano gli operai, mentre la decisione del giudice mette la società in una posizione di forza nella trattativa col governo, sottolinea il segretario della Fim-Cisl Marco Bentivogli.

 

Dall’ordinanza emerge che l’Ilva in amministrazione straordinaria (i commissari) per anni non ha commissionato un’analisi di rischio: la prima scadenza per presentarla era stata fissata dai giudici il 31 ottobre 2015, così come i primi interventi dovevano essere realizzati entro il 31 novembre dello stesso anno, per poi procedere all’automazione delle operazioni attorno all’altoforno 2, quella che ancora oggi non c’è e per cui l’impianto viene spento. L’ordinanza cita la redazione redatta dal custode giudiziario degli impianti, Barbara Valenzano, dell’8 ottobre 2018 che evidenziava come delle sette misure chieste dai giudici, ne erano state completate solo due e tre erano state realizzate solo parzialmente. E sottolinea come il 29 novembre di quest’anno, cioè meno di due settimane fa, quattro testimoni tra cui il responsabile dell’area a caldo Arcangelo De Biasi, l’ex responsabile salute e sicurezza Sergio Palmisano che aveva denunciato come Mittal avesse rifiutato alcuni ordinativi, “nonché il coordinatore operativo della sicurezza Massimo Campo” hanno dichiarato che non risulta notificato ad ArcelorMittal da parte di Ilva in a.s. l’aggiornamento del rapporto di sicurezza del 2017”. 

 

 

Sulla base di un’analisi dei rischi redatta il 12 novembre di quest’anno, il tribunale ha in ogni caso concluso che per gli operai che lavorano all’altoforno 2 c’è ancora il rischio “frequente”, “probabile e altamente possibile” di essere investiti da fuoriuscite di gas e polveri per aumento della pressione, nell’area dove la temperatura raggiunge i settecento gradi. Per attenuarlo si dovrebbero appunto automatizzare i processi di tappatura, foratura e campionamento, ma stando alle stime del gruppo Paul Wurth, a cui Mittal si è rivolta, servirebbero altri 14 mesi. Dal punto di vista della sicurezza, nella relazione presentata agli investitori a inizio novembre, il gruppo calcolava che l’acquisizione di Ilva ha fatto quasi raddoppiare il tasso di frequenza di incidenti che impediscono di proseguire l’attività lavorativa registrato nei suoi stabilimenti nei primi nove mesi dell’anno, ma sul fronte contabile lo spegnimento dell’Afo 2 è semplicemente un investimento in meno rispetto ai 360 milioni promessi, a fronte di un impatto dell’Ilva sui conti tutto in perdita: lo stabilimento vale oggi -540 milioni di euro l’anno secondo le analisi di Morgan Stanley. 

 

 

Anche il piano di Palazzo Chigi può fare a meno dell’altoforno 2: si concentra sull’introduzione di un forno elettrico, sull’altoforno 4 e sul riammodernamento del 5, più conveniente da ristrutturare e con una potenzialità di produzione di altre 4 milioni di tonnellate. E quello che una volta sarebbe stato uno choc produttivo immediato ha oggi un impatto più limitato anche sulla filiera: dal commissariamento dell’Ilva l’import dall’estero è cresciuto per un valore di circa 500 milioni di euro l’anno secondo i dati dello Svimez e in parallelo la produzione di Taranto è calata a meno di 5 milioni di tonnellate l’anno. Ma lo stop all’Afo 2 porta acqua al mulino della tesi, sostenuta dalla difesa di Mittal, per cui in via precauzionale per mancanza degli stessi sistemi di automazione si debbano spegnere anche gli altri impianti. E in quel caso il fallimento dello stato rischia di travolgere la siderurgia italiana nel suo complesso, la stessa che sta alla finestra e che a quel punto sarebbe chiamata a salvare quello che altri non sono stati capaci di salvare.

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