Un'immagine del centro addestramento professionale IRI a Napoli (foto LaPresse)

Altro che nuovo Iri, lo stato gestisca meglio le partecipazioni già sue

Sandro Trento

La degenerazione delle Partecipazioni statali è un monito per chi vuole nazionalizzare senza prima fare i conti

Il ministro Stefano Patuanelli ha ventilato l’ipotesi di nazionalizzare l’Alitalia, anzi si è spinto a dire che se necessario è pronto a rifondare un nuovo Iri per proteggere e salvare le imprese italiane in crisi. Poiché la nostalgia per lo stato imprenditore è presente in tutti gli schieramenti politici, vale la pena di rifletterci su. Subito dopo la guerra si pose il problema se tenere in vita l’Iri. Basta rileggersi gli Atti della Costituente (1946) per avere un’idea chiara di quali fossero i termini del problema. Nelle audizioni vennero, a un certo punto, convocati gli imprenditori privati del settore siderurgico e Oscar Sinigaglia, allora alla guida della Finsider (Iri). Giovanni Falck, imprenditore dell’acciaio, respinge la tesi che sia necessaria in Italia una grande industria siderurgica. L’Italia, povera di carbone e fatta da tante piccole e medie imprese, dovrebbe fare, a suo avviso, come la Svizzera.

 

Sinigaglia nella sua audizione sostiene invece: “Difendo la siderurgia, perché la ritengo base essenziale, indispensabile per l’industria meccanica (…). Tale sviluppo dell’industria meccanica è decisamente impossibile se essa non è affiancata da una sana, potente industria siderurgica perfettamente e modernamente attrezzata e organizzata. A questo proposito si cita sempre l’esempio della Svizzera, ma esso non calza affatto al nostro caso (…). Noi abbiamo bisogno – oltre che della meccanica fine – anche della meccanica di massa; chi costruisce navi, carpenterie, serbatoi, vagoni, ecc. non può tenere in magazzino le materie prime occorrenti ma le deve ordinare di volta in volta nelle qualità e nelle misure necessarie (…) e non può attendere dei mesi perché questi materiali siano approntati e spediti da paesi esteri, con tutte le lungaggini inerenti ai trasporti”. Questo scambio ci dà un’idea della miopia di certa imprenditoria privata nell’Italia del dopoguerra e della capacità di visione dei manager pubblici come Sinigaglia. L’Ilva di Taranto nacque dalle sue idee.

 

Per un quindicennio, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, alcuni capaci manager pubblici si trasformarono in imprenditori pubblici che, con chiara visione e senso del bene comune, consentirono al paese di dotarsi di infrastrutture adeguate e di grandi imprese moderne. L’esperienza delle partecipazioni statali (PpSs) nel primo dopoguerra fu positiva: compensavano l’assenza di imprenditori privati capaci di visione. Un nodo irrisolto fu però quello della sorveglianza sulla loro performance. Le PpSs non furono mai sottoposte a un preciso sistema di indirizzo e di valutazione dello stato azionista. L’indirizzo politico era affidato in origine alle direttive approvate dal Consiglio dei ministri. Ma le direttive indicavano solo obiettivi di massima e non prevedevano poteri sanzionatori da parte del governo. Il controllo parlamentare era assente. Le stesse holding capogruppo si riservavano funzioni di mera natura finanziaria. Le capacità imprenditoriali erano nelle società operative e il management godeva di un ampio grado di autonomia, sia dal potere politico sia dal vertice del gruppo. Mancava in quel modello un articolato sistema di indirizzo strategico e di controllo dei risultati. Anche il ministero delle Partecipazioni statali, istituito solo successivamente, non svolse mai la funzione di indirizzo e di vaglio della gestione.

 

I buoni risultati della prima fase furono il frutto di condizioni eccezionali, non facilmente replicabili. L’assenza di un modello definito di vaglio della gestione e il mutare del clima politico, con il centro-sinistra, portarono a una progressiva degenerazione del modello delle PpSs. Le imprese pubbliche finirono per perseguire obiettivi molteplici e a volte in contraddizione l’uno con l’altro. Negli anni 70 e 80 le PpSs dovevano allo stesso tempo sviluppare taluni settori e assicurare l’industrializzazione del Mezzogiorno, adottare nuove relazioni industriali e promuovere il progresso tecnologico. L’economicità della gestione finì per essere messa in secondo piano. Le PpSs divennero anche gruppi preposti al salvataggio di imprese in crisi: si addossava allo stato il ripianamento di tante aziende private decotte. Questa funzione salvataggio fu assai gradita a parte del capitalismo privato italiano. Vi è chi caldeggia un ritorno all’Iri. Ma in realtà già oggi il ministero dell’Economia controlla direttamente o indirettamente via Cassa depositi e prestiti imprese che occupano circa 480 mila dipendenti. Il valore di portafoglio complessivo, per Mef e Cdp, è pari a circa 49 miliardi di euro. Si tratta di aziende come Poste, Enel, Eni, Saipem, Ansaldo, Monte Paschi, Ferrovie, Rai, Invitalia. Ebbene, tuttora permane il problema dello scarso controllo sulle aziende pubbliche. Manca un chiaro assetto che definisca poteri di indirizzo e di supervisione della gestione.

 

A prescindere dall’opportunità o meno di allargare il perimetro dello stato imprenditore, sarebbe utile e necessario definire finalmente un quadro di controllo su questo vasto patrimonio di partecipazioni statali. E questo è tanto più indispensabile se si pensa di ricorrere di nuovo all’idea di nazionalizzare aziende in crisi e in perdita. Dallo stato “salvatore” si dovrebbe passare allo stato “valorizzatore” e programmatore. Andrebbe individuato un organo preposto alla definizione degli indirizzi strategici per ciascuna azienda pubblica (in questa direzione muove una proposta del “Forum delle diseguaglianze” di Fabrizio Barca). Si parla molto di sviluppo sostenibile, ad esempio, e allora sarebbe necessario tradurre questo generico obiettivo in piani da assegnare alle aziende pubbliche. Serve un organo politico che stabilisca le strategie di medio e lungo termine e un organo di supervisione e vaglio dei risultati. Il management delle aziende pubbliche deve essere reso responsabile e valutabile da parte del governo e del Parlamento, in modo trasparente. Le soluzioni possono essere varie. Un comitato interministeriale, ad esempio, potrebbe assumere la funzione di definire periodicamente le linee strategiche della missione assegnata a ciascuna azienda pubblica, con orientamenti generali ma anche obiettivi misurabili e tempistiche. A questo comitato potrebbe aggiungersi un’agenzia di valutazione dei risultati raggiunti alle date previste dai piani di indirizzo. Le linee strategiche e la valutazione dovrebbero essere presentati periodicamente al Parlamento. Il mancato raggiungimento dei risultati prefissati dovrebbe comportare sanzioni sul management delle aziende in questione.

Proporre la nazionalizzazione senza aver risolto questi nodi fondamentali porterebbe, di nuovo, a situazioni pericolose già viste troppe volte in passato.

 

Sandro Trento, economista, Università di Trento

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