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La pessima idea di impoverire Milano

Luciano Capone

Per il ministro Provenzano, “questa città attrae ma non restituisce”. È molto peggio di una gaffe: è un errore teorico e politico. Nell’economia globale vincono le città e ce ne vorrebbero molte altre. Non è colpa del nord se il sud soffre

Roma. “Decantiamo Milano, ma a differenza di un tempo oggi questa città attrae ma non restituisce quasi più nulla”, ha dichiarato il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano in un convegno organizzato dall’Huffington Post e dalla Fondazione Feltrinelli a Milano. “La sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all’Italia”, ha detto sempre a proposito del capoluogo lombardo. Le parole dell’esponente del Pd hanno suscitato molte reazioni, anche nel suo stesso partito, ma a differenza delle uscite un po’ sballate a cui ci hanno abituati vari ministri negli ultimi anni, quella di Provenzano non è un gaffe. E’ peggio: è un errore. Anzi, un doppio errore, teorico e politico.

 

Provenzano conosce bene i temi del divario nord-sud e della coesione territoriale, perché da vicepresidente della Svimez se ne è occupato a lungo e prima di diventare ministro. Pertanto le sue parole non sono una dichiarazione estemporanea, ma il frutto di un’elaborazione secondo cui il ritardo del Meridione è – almeno in una certa misura – causato dal successo del Nord, che deve farsi carico di colmare il divario. Deve “restituire”.

 

Il primo errore, quello teorico, è proprio l’uso di questo verbo. Non si comprende cosa Milano non “restituisca”, visto che i suoi cittadini sono assoggettati al medesimo sistema fiscale degli altri italiani, che li obbliga a contribuire in misura proporzionale (per le imprese) e progressiva (per le persone fisiche) rispetto al successo economico.

 

Ma il ragionamento secondo cui l’arretratezza del Sud dipende dalla mancata riparazione di Milano, o di altre aree sviluppate del paese, è un’altra stortura che può condurre a errate decisioni di politica economica. Nelle economie avanzate, come mostrano gli studi di economisti come Edward Glaeser o Enrico Moretti, sono le città il motore della crescita economica. E questo fenomeno è stato accentuato dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico. Si pensava che il mondo potesse diventare piatto, cioè che le distanze e la geografia stessero diventando non più influenti, ma come spiega Moretti nel bestseller “La nuova geografia del lavoro” anche in questo mondo più piccolo e interconnesso per imprese e lavoratori diventa importante stare vicini per scambiarsi idee e servizi: le economie di agglomerazione, attorno alle città, aumentano la produttività, favoriscono l’innovazione e creano posti di lavoro anche nei settori tradizionali. Milano, in Italia, è un esempio di questo fenomeno.

 

In questo contesto, il problema dell’Italia non è il (relativo) successo di Milano. Ma il fatto che non ci siano casi di città altrettanto dinamiche. Come mostra un recente studio di diversi economisti della Banca d’Italia, l’Italia ha un peso delle grandi agglomerazioni urbane inferiore a quello degli altri paesi avanzati e, soprattutto, i benefici di queste agglomerazioni sono inferiori in termini di produttività e crescita. Che ci piaccia o no, il motore della crescita è nei centri urbani e dipende dalla loro capacità di innovare e competere a livello globale, attirando capitale umano e finanziario. E per quanto Milano sia nel contesto italiano un caso di successo, deve confrontarsi a livello internazionale con Londra, Parigi, Berlino, Tokyo, Singapore, Pechino, San Francisco, Seattle e New York. Pensare che Milano debba trascinarsi dietro anche il resto d’Italia, pagando un prezzo ulteriore in termini di trasferimenti rispetto all’attuale residuo fiscale per compensare il mancato sviluppo delle aree interne o meno sviluppate, non farà il bene né di Milano né del Sud.

  

La globalizzazione ha trasformato la geografia economica di molte aree del mondo, creando vincitori e vinti, e distruggendo vecchie agglomerazioni che con l’apertura dei mercati hanno trovato concorrenza più che nuova domanda. Si pensi al decadimento e allo spopolamento della Rust Belt negli Stati Uniti a causa al declino del settore manifatturiero. Qualcosa di simile è accaduto in Italia con i vecchi distretti industriali, ad esempio nel tessile e nel mobile, che non hanno retto la concorrenza cinese. Ma la soluzione ai problemi delle zone più arretrate o in declino non passa certo dal chiedere un ristoro supplementare alle economie urbane di successo. Perché il rischio è quello di frenare le seconde senza far correre le prime. Bisognerebbe invece chiedersi come mai non esistano delle “Milano del Sud”, quali sono gli ostacoli che impediscono alle città meridionali di diventare degli hub innovativi, dei poli attrattivi di capitali e cervelli, dei motori di crescita economica.

 

In questo senso è quasi paradossale che il ministro per il Sud imputi a Milano una sorta di responsabilità nel mancato sviluppo del Meridione, proprio nei giorni in cui rischia di spegnersi la più grande industria del Mezzogiorno, l’Ilva, per cause prevalentemente politiche, che poco hanno a che fare con gli sconvolgimenti della globalizzazione e del progresso tecnico, peraltro in una città come Taranto che per decenni è stata l’unica nel sud ad attirare immigrati dal nord Italia.

 

L’altro errore nelle parole del ministro Provenzano è di tipo politico. Dichiarare “oggi questa città attrae ma non restituisce quasi niente all’Italia” nell’unica grande città del Nord amministrata dal Pd forse non è una mossa scaltra. Va dato atto all’integrità intellettuale di Provenzano che, restando coerente con la sua visione, non adatta le proprie dichiarazioni al pubblico che si trova di fronte. Ma questo può comunque produrre effetti politici poco piacevoli. Per certi versi qualcosa di simile è accaduto con l’introduzione della “plastic tax” alla vigilia delle elezioni in Emilia-Romagna, l’unica regione del centro-nord amministrata dalla sinistra. Ebbene, l’imposta introdotta dal governo sostenuto dal Pd colpisce prevalentemente proprio la Packaging Valley emiliana che, con 230 aziende e oltre 17 mila occupati, produce oltre il 60 per cento del giro di affari nazionale.

 

Non è ancora chiaro se la strategia del Pd sia caratterizzata da una mancanza di scaltrezza o di dialogo con i territori amministrati, oppure da una deliberata linea che fa prevalere le politiche ambientali e di coesione sugli interessi elettorali locali. In ogni caso il risultato può essere lo stesso: l’arretramento al di sotto della linea gotica e la completa trasformazione del Pd da partito meridionalista a partito meridionale, costretto tra l’altro a contendersi il voto nel Mezzogiorno con il M5s, suo attuale e quasi sovrapponibile alleato di governo. Mentre la Lega di Salvini diventa un partito nazionale e nazionalista, il Pd si trasforma in partito regionale e regionalista. Il problema, per una semplice questione numerica, è che senza i voti del nord Italia è impossibile essere maggioranza nel paese. Sembra una strategia miope, a meno che la nuova prospettiva del Pd non sia quella di diventare un partito a vocazione minoritaria.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali