L'Ilva di Taranto (foto LaPresse)

Contro i cialtroni dell'acciaio

Marco Bentivogli

L’Ilva di Taranto è lo specchio di un paese in guerra contro sé stesso. La verità sull’inizio della fine della siderurgia italiana raccontata da chi l’ha vissuta

Mi occupo di siderurgia dal 2008, l’anno precedente è stato un anno importante per il settore: fu l’anno record per la domanda mondiale d’acciaio. La domanda di questo metallo è un elemento cruciale perché è un buon indicatore della salute dell’economia in quanto riflette la domanda dei settori consumatori, automotive, elettrodomestico, costruzioni, cantieristica navale, e molto altro. L’acciaio scorre nelle vene dell’economia, fermarlo significa provocare l’infarto dell’organismo. Nel nostro paese la siderurgia ha un valore essenziale per le nostre caratteristiche strutturali. Siamo un paese piccolo, povero di materie prime. Ciò rappresenta una “condanna” ad avere un manifatturiero con grande capacità di export per tenere la bilancia commerciale in positivo e poter pagare le importazioni di ciò di cui siamo sprovvisti. Siamo un paese che morfologicamente deve puntare al mondo aperto. La siderurgia è il settore primario del manifatturiero e perdere, dopo l’alluminio, anche la produzione di acciaio significa perdere sovranità industriale. Per questo la siderurgia italiana ha una storia importante ma che riflette tutte le contraddizioni del nostro paese.

E’ la storia che corre parallela al Gruppo Ilva, il cui nome deriva dal nome latino dell’Isola d’Elba. E’ la tipica storia italiana in cui si parte da una grande intuizione ma che presto, per l’incapacità di sommare le energie e conciliare le esigenze, si trasformerà in un disastro.

Il 9 luglio 1960 fu posata la prima pietra del più grande centro siderurgico italiano ed europeo. A pochi passi dalle estreme propaggini della città di Taranto, vengono estirpati decine di migliaia di alberi d’ulivo. Molti anni dopo, per lo stabilimento a pochi chilometri di distanza di Leonardo a Grottaglie, che costruisce le fusoliere del Boeing 787, gli ulivi vennero espiantati e ripiantati vicino alla città. Il primo altoforno entrò in funzione il 21 ottobre 1964, il secondo il 29 gennaio 1965. Dopo una fase di rodaggio, il 10 aprile 1965 il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inaugurò ufficialmente il quarto centro siderurgico del paese (quarto in ordine di tempo, dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli), il più grande di tutti.

 

La siderurgia è il settore primario del manifatturiero: perdere la produzione di acciaio significa perdere sovranità industriale

  

 

Quando la politica pensava al futuro

Nel 1948 il governo italiano aveva approvato il Piano Sinigaglia, dal nome dall’ingegnere e imprenditore Oscar, presidente delle acciaierie Ilva all’inizio degli anni Trenta, perseguitato dal regime fascista in quanto ebreo, poi presidente di Finsider, il ramo dell’Iri che comprendeva le aziende siderurgiche in mano pubblica, tra cui l’Ilva, la Terni, la Dalmine e la Società Italiana Acciaierie di Cornigliano (Siac). Il Piano prevedeva un forte aumento della capacità produttiva della siderurgia nazionale, attraverso la ricostruzione dello stabilimento di Genova-Cornigliano e l’integrazione verticale delle lavorazioni negli stabilimenti di Piombino e Bagnoli. Persone come Sinigaglia erano capaci di non relegare le politiche al “ricatto di breve termine” della politica attuale, o al “tweet” della recentissima. In un articolo del 1948 intitolato “The future of Italian iron and steel industry”, Sinigaglia aveva spiegato la sua strategia: l’Italia era un paese sovrappopolato le cui risorse non consentivano ai suoi abitanti di raggiungere standard di vita paragonabili a quelli dei paesi europei più ricchi. L’emigrazione non poteva rappresentare la soluzione al problema ed era, quindi, necessario analizzare tutte le risorse disponibili. L’agricoltura, secondo Sinigaglia, non poteva però migliorare la condizione precaria del paese. La speranza poteva essere riposta nell’industria, in particolare nella siderurgia, che avrebbe assicurato almeno la produzione di acciaio a prezzi moderati, necessaria a fornire semilavorati agli altri settori industriali.

 

La scelta di Taranto dopo Bagnoli

Negli anni 60, si decise di costruire un altro stabilimento siderurgico nel sud, dopo quello di Bagnoli nel 1910, la scelta ricadde su Taranto per diverse considerazioni di natura tecnica, logistica – fra le altre le caratteristiche del Golfo tarantino che consentivano di costruire un porto capace di accogliere navi per il trasporto delle materie prime e la spedizione dei prodotti – e, naturalmente, politica. Una città militar-industriale di 170 mila abitanti sorta intorno alla base della Marina e all’Arsenale attraversata da una violenta crisi occupazionale. “Taranto non deve morire”, slogan usato recentemente, nasce, in realtà in quegli anni pre Ilva. “Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi 2.000 miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento”, scriveva Antonio Cederna nel 1971 sul Corriere della Sera. Tuttavia, alla metà degli anni 70 si procedette al raddoppio del centro siderurgico che portò gli assunti diretti al numero esorbitante di oltre ventimila dipendenti, e quelli dell’indotto a oltre quindicimila. Il raddoppio estese la superficie della fabbrica. Le basi del vero gigantismo industriale che rendono complicatissima (ma non impossibile) qualsiasi via d’uscita del “caso-Taranto” sorgono allora.

 

Negli anni 70, i sindaci dei comuni limitrofi modificano i piani regolatori per costruire sempre più vicino alla fabbrica. Lo stabilimento di Gand (Belgio) preso da ArcelorMittal come modello – e contestato dall’associazione Peacelink per emissioni di CO2 e polveri sottili – è nato nel 1962 come quello tarantino a una decina di chilometri dall’abitato. La differenza è che da allora hanno evitato di costruirvi attorno. Qui no.

 

Si privatizza la siderurgia, arrivano i Riva

Il 2 giugno 1992 si discute di privatizzazioni tra alcuni banchieri inglesi e gran parte dell’establishment italiano al largo delle coste tirreniche sul Britannia. Partì un grande processo di privatizzazioni che investì anche la siderurgia pochi anni dopo. E’ la storia del’Ilva privata, a partire dal 1995, quando arrivarono i Riva che si aggiudicarono quella che nel frattempo — dopo la messa in liquidazione di Italsider nel 1988 — era appunto l’Ilva. Con un’offerta di 1.649 miliardi di lire (e 1.500 miliardi di debiti, a fronte di un fatturato di 9 mila miliardi e 11.800 dipendenti) superarono i rivali del gruppo Lucchini. Con un “padrone” privato si pensava fosse più facile per la magistratura controllare che la produzione dell’acciaio venisse fatta secondo le leggi. Non si sa, neanche con il senno di poi, se l’Ilva dei Riva abbia inquinato più o meno dell’Italsider di stato, ma si sa con certezza che ai tempi dei Riva le leggi per la tutela ambientale erano un più chiare e prescrittive. Con la fine delle partecipazioni statali e l’avvio dei processi di privatizzazione, alla metà degli anni 90, lo stabilimento venne rilevato dal Gruppo Riva che adottò politiche di gestione della forza lavoro e delle relazioni sindacali molto dure. La storia dei Riva in Ilva dura 17 anni: il 26 luglio del 2012, infatti, l’acciaieria viene messa sotto sequestro (senza facoltà d’uso) a seguito di un’inchiesta della magistratura di Taranto. Le accuse per i vertici aziendali, a vario titolo, sono di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. Nel 2013 arriva il commissariamento, nel 2015 l’amministrazione straordinaria, nel 2016 il decreto per la vendita, nel 2017 l’aggiudicazione alla cordata Am Investco (in concorrenza con AcciaItalia), guidata da ArcelorMittal, gruppo nato nel 2006 dalla fusione tra la francese Arcelor e l’indiana Mittal Steel Company, con quartier generale in Lussemburgo. E l’Ilva torna privata. In ogni caso, sia pubblica che privata, un colosso del genere, generalmente è generativo di nuovo tessuto industriale e di ceto imprenditoriale autoctono. Nell’esperienza ionica, ciò non è accaduto, peraltro i Riva si liberarono di quello che oggi è un vero gioiello, il Csm, il Centro di sviluppo materiali, oggi di proprietà Rina. Il 26 luglio 2012 venne disposto il sequestro di tutta l’area a caldo di Ilva (cuore dello stabilimento a ciclo integrale), cui seguirono provvedimenti giudiziari nei confronti della famiglia Riva e di alcuni dirigenti, e arresti. Il reato imputato è “disastro ambientale”.

 

Se ci sono elementi di rischio imminente è giusto sequestrare fabbriche e fare arresti, non so se sia utile sequestrare e far deperire nel piazzale un milione e 700.000 euro di prodotti finiti e pronti da spedire, ma di sicuro non lo è avviare il dibattimento cinque anni dopo

 

L’ambientalismo cieco e il sequestro

Quella mattina stavo andando a Torino in Alenia Aermacchi per delle assemblee ma, apprese le notizie, corsi a Taranto. Quel giorno i lavoratori invasero la città. Le manifestazioni erano in mano alle associazioni ambientaliste e di qualche lavoratore. Il loro posizionamento era netto: “La procura fa bene a chiudere la fabbrica, perché Taranto deve avere un altro futuro”. La mattina seguente la Fim e la Uilm presidiarono tutte le assemblee lungo i blocchi stradali, mentre il gruppo dirigente della Fiom rimase più indietro. Iniziò a serpeggiare l’idea che chi scioperava lo facesse “contro la magistratura”. Ricordo che addirittura le bottiglie d’acqua distribuite dalla mensa per ristorare i manifestanti dal feroce caldo della via Appia vennero considerate nella trasmissione Rai di Gad Lerner un “fiancheggiamento da parte dei Riva”. Ancora oggi continuo a non capire perché chiedere che la “giustizia” non facesse pagare il conto due volte ai lavoratori fosse “un atto ostile alla procura”. Era doveroso l’intervento della magistratura ma lo è anche necessario comprendere gli effetti del proprio intervento su quanti non hanno alcuna responsabilità delle decisioni assunte. Non può essere colpa dei lavoratori se a Taranto non si è riusciti a conciliare ambiente e sviluppo, come invece accade altrove.

 

  

La politica industriale delegata ai magistrati

La magistratura ha molti meriti in questa vicenda che si trascinava da troppo tempo, vittima di tatticismi e ritardi imperdonabili. L’iniziativa di rottura è meritoria. Ma in un paese che ha fatto poco e male politica industriale, di certo questa non può essere abdicata alla magistratura. Se ci sono elementi di rischio imminente è giusto sequestrare fabbriche e fare arresti, non so se sia utile sequestrare e far deperire nel piazzale 1 milione 700.000 euro di prodotti finiti e pronti da spedire, ma di sicuro non lo è avviare il dibattimento cinque anni dopo. Tra i 53 indagati ci fu il bravissimo professor Assennato, il direttore generale Arpa che fornì i dati che hanno incardinato l’indagine preliminare e il processo “Ambiente svenduto” durante il quale si stanno svuotando molte delle intercettazioni perché erroneamente trascritte (come ci ricorda su questo giornale Annarita Digiorgio, il caso dell’avvocato amministrativista Francesco Perli imputato perché nella trascrizione delle intercettazioni – errate – avrebbe detto “abbiamo inquinato gli atti” quando in realtà aveva detto “abbiamo impugnato” riferendosi a un ricorso contro l’ordinanza del sindaco Stefano che disponeva la riduzione dell’attività dello stabilimento, clamoroso). Trovo un po’ irrituale che il procuratore capo Franco Sebastio, successivamente, in pensione, si sia candidato a sindaco con esito elettorale disastroso ma proprio perché l’Italia è un paese per giovani, poi scelto nel comitato dei saggi di Michele Emiliano e presidente della Ladisa, società leader delle mense pubbliche pugliesi.

 

Il mercato dell’acciaio non dorme mai

Lo stallo in Ilva ha determinato la perdita immediata di clienti e una sofferenza imprevedibile all’azienda, che ha completamente perso la reputazione (gli americani sono stati i primi ad andarsene, e poi perfino Fiat, Fincantieri) e poi anche la capacità operativa (la commessa per i tubi del gasdotto Tap l’hanno vinta società estere) e pure le competenze (Ilva aveva ingegneri giovani e preparati che sono andati altrove, alcuni all’estero non hanno certo fatto fatica a ricollocarsi, ma noi li abbiamo persi). Anche chi oggi pensa a fermare tutto per poi ripartire non si è accorto che è stata una colpa tutta politica aver offerto le quote di mercato della ex Ilva a tutte le aziende del settore e forse in misura minore a chi ha comprato.

 

L’azienda perde la reputazione, la capacità operativa e pure le competenze. A Linz, in Austria, i cittadini non si sono fatti illudere da demagoghi né da affaristi: hanno votato politici che hanno tenuto insieme ambiente e crescita, e l’impianto, a ridosso della città, non inquina

 

Taranto capitale delle contraddizioni

Bisognerebbe organizzare dei tour a Linz, in Austria, dove i cittadini non si sono fatti fregare da demagoghi né da affaristi: hanno invece votato politici che hanno tenuto insieme ambiente e crescita e l’impianto, a ridosso della città, non inquina. La prima manifestazione contro l’inquinamento Ilva risale al 1971 ma, da allora, nel corso di questi anni, mentre gli attori dello scontro hanno avuto grande visibilità, minore fortuna hanno avuto ambiente e occupazione. Taranto era ed è la città delle contraddizioni: il complesso dell’industria pesante e inquinante è stato liberato con la vicenda Ilva dalle responsabilità che invece hanno sulla compromissione dell’ambiente. Contraddizioni che portarono il 14 aprile del 2013 a un referendum per la chiusura dello stabilimento, a cui partecipò meno del 20 per cento circa dei tarantini (non fu raggiunto il quorum). Nel quartiere Tamburi, quello più vicino allo stabilimento, l’affluenza fu più bassa che nel resto della città. 

  

Va detto che incertezze e sbagli ci furono in entrambi gli schieramenti politici, come il tentativo in cui al termine del 2014 l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, personalmente scettico sui Mittal e mal consigliato da Andrea Guerra che lo convinse a nazionalizzare temporaneamente (in barba a qualsiasi norma di mercato comunitaria) l’Ilva per bonificarla e poi rimetterla sul mercato magari proprio a fondi che si occupano di ristrutturazioni aziendali. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, e il fronte imprenditoriale italiano erano furbescamente favorevoli – quote di acciaio da spartirsi – e nel fronte sindacale solo noi della Fim-Cisl ci schierammo contro un impossibile processo di nazionalizzazione. E’ singolare che i siderurgici privati siano favorevoli alla nazionalizzazione del loro concorrente più grande. Quando nel 2012 Hollande minacciò la nazionalizzazione temporanea di Florange (dove fu colato l’acciaio per la torre Eiffel) Mittal lo fermò spiegandogli che avrebbe chiuso tutti i siti in Francia (20.000 lavoratori). 

 

Alla metà degli anni 70 si procedette al raddoppio del centro siderurgico che portò a oltre ventimila gli assunti diretti

 

Tanti passi falsi ed errori. Tempo perso, inutilmente, defenestrando il commissario Enrico Bondi, che resta la figura più seria e autorevole che si è occupata della gestione di questa fase difficilissima. Insomma, tanto per ricordare che è da sette anni che era aperta la questione dell’Ilva e tutti continuavano a giocare. Sinceramente anche io ero scettico che il più grande produttore di acciaio al mondo alla fine comprasse: è un’azienda che partecipa con manifestazioni di interesse a moltissime gare con il solo scopo di entrare in data room e prendere dati. Ma alla fine Arcelor entrò davvero.

 

Cambia il mondo dell’acciaio

Prima del 2000 la Cina era importatore netto di acciaio e alluminio, i nostri concorrenti erano Giappone, Corea e Sudamerica, oggi delle prime 25 aziende al mondo 14 sono asiatiche. Quando si produce acciaio, l’alternativa è tra il ciclo integrale e il forno ad arco elettrico. Senza l’uso di tecnologie adeguate, il primo ha un costo insostenibile in termini ambientali. L’Italia presentava, già prima dell’esplosione della vicenda Ilva uno squilibrio rispetto all’Europa, dove la maggioranza dell’acciaio mediamente è prodotta per il 75 per cento da ciclo integrale e il 25 per cento da forno elettrico. In Italia oggi siamo al dato opposto. E la qualità di acciaio necessaria ad alcuni impieghi, come l’infrastruttura ferroviaria, l’automotive, ecc., può derivare solo dal ciclo integrale. Dopo la chiusura dell’altoforno di Piombino, in Italia si produce acciaio da ciclo integrale solo a Taranto.

 

Quando si produce acciaio, l’alternativa è tra il ciclo integrale e il forno ad arco elettrico. La qualità di acciaio necessaria ad alcuni impieghi, come l’infrastruttura ferroviaria o l’automotive, può derivare solo dal ciclo integrale, che senza l’uso di tecnologie adeguate ha un costo insostenibile in termini ambientali

 

Le cokerie alimentano altiforni che permettono di produrre l’acciaio. La materia utilizzata è, appunto, il coke, assieme a strati di minerale e calcare. I vantaggi degli altiforni sono di due tipi: la qualità è considerata superiore, soprattutto per i prodotti piani, rispetto al forno ad arco elettrico; i costi della materia prima sono inferiori, almeno in un contesto come quello italiano. Questo sistema è, però, sicuramente più inquinante, per l’emissione di gas nocivi e per le polveri dei depositi di coke. L’incidenza di tumori e leucemie nel territorio di Taranto è un esempio tragico ed evidente dei rischi per l’ambiente e per la salute che può provocare un impianto di questo tipo. Tutto ciò, ovviamente, se si risparmia e non si utilizzano le migliori tecnologie oggi disponibili.

 

I costi dei 2.200 giorni senza padrone

Ma quanto sono costati gli oltre 2.200 giorni dell’Ilva senza padrone, in cui si sono susseguiti cinque governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte) e i diversi commissari? (Poiché l’ultimo bilancio di Ilva approvato dagli organi sociali è quello del 2011, gestione Riva, il calcolo può essere soltanto approssimativo). Nel 2015 l’Ilva ha perso in media 50 milioni al mese (quindi 600 milioni nell’anno), 25 nel 2016 (300 milioni), 30 nel 2017 (360) e 25 nei primi otto mesi del 2018 (200 milioni). In pratica dal 21 gennaio 2015, inizio dell’amministrazione straordinaria, a oggi, l’Ilva ha perso 1,46 miliardi di euro. Dall’assegnazione ad Am Investco (5 giugno 2017) all’accordo con i sindacati (6 settembre 2018) si sono persi circa 380 milioni. Se si considera che inizialmente la gara si sarebbe dovuta chiudere a giugno 2016, nel conto dei due anni di ritardo vanno aggiunti altri 330 milioni, che portano il totale a circa 700 milioni. Per gli anni 2012-14, si può far riferimento ai numeri emersi dalla data room a cui ebbero accesso le aziende che presentarono la prima manifestazione d’interesse: emergono perdite per 2,1 miliardi. Complessivamente sono quindi 3,6 miliardi le perdite del dopo Riva, quasi quanto i 4 miliardi offerti da ArcelorMittal per rilevare l’Ilva.

 

Chiudi l’Ilva, apri l’Ilva

Soltanto in Italia la produzione di acciaio da ciclo integrale, come quella di Taranto, è considerata inevitabilmente inquinante.

Prima delle elezioni, anche il Movimento 5 stelle aveva promesso di chiudere l’Ilva e bloccare la Tap. Una piattaforma molto simile a quella del governatore della Puglia in quota Pd. Celebre il comizio di Alessandro Di Battista: “Se andiamo al potere, la Tap la blocchiamo in due settimane”. Poi ci si chiede perché le opere pubbliche costano di più in Italia, e se i ricorsi al contenzioso (Tar e similari) o alle manifestazioni, che rallentano ma mai impediscono la costruzione dell’opera, non vadano in effetti a vantaggio dei concessionari o di chi vince gli appalti. I costi diretti e le penali lievitano e sono, come sempre, a carico di noi contribuenti. E questo vale anche per Ilva.

 

Analogamente, l’idea, promossa da Grillo, che per il risanamento di Taranto possa prendersi ad esempio quanto fatto nella Ruhr è fuorviante. La Germania non ha dismesso buona parte dell’industria estrattiva, ma ha investito in maniera massiccia nell’industria siderurgica, spina dorsale del sistema industriale europeo: il 39,7 per cento della produzione di acciaio grezzo arriva dalla Germania – primo produttore d’acciaio, con grande utilizzo del ciclo integrale, lo stesso di Taranto – a fronte di un 20,5 per cento prodotto dall’Italia. Inoltre, il Parco attorno al fiume Emscher della Ruhr ha dimensioni notevolmente ridotte rispetto al sito siderurgico di Taranto, e il progetto di bonifica e risanamento ha coinvolto un’area molto ampia, dove sono nati servizi e nuova occupazione, grazie anche alla prossimità con zone altamente industrializzate. La riconversione ha funzionato perché ha coinvolto anche le aree circostanti ad altissima industrializzazione, per cui nel parco e in altre aree della Ruhr sono progressivamente nati servizi offerti alle regioni limitrofe, assai industrializzate e ricchissime. Infine, mentre si chiudeva la Ruhr i tedeschi intensificavano la produzione siderurgica a Duisburg, ampliando l’indotto e dando lavoro ai servizi nati nel parco stesso e nel bacino della Ruhr. Circostanze assolutamente lontane dalla realtà italiana e tarantina. C’è da dire, poi, che i posti di lavoro perduti dopo la chiusura di miniere e fabbriche sono stati recuperati dopo 50 anni.

 

Da Guidi a Calenda a… Di Maio

La fase di cessione si apre al Mise con Federica Guidi, poi con Carlo Calenda che arriva a un passo dall’intesa e si riapre dopo il 4 marzo 2018 con il ministro Luigi Di Maio che per molti mesi prende tempo. Nella conferenza stampa del 23 agosto, all’indomani del parere dell’Avvocatura di stato, il ministro dello Sviluppo economico ha dichiarato per ben cinque volte che “per lui e il ministero la gara è illegittima” e che vi è stato “eccesso di potere”. Ma che la legge impedisce sia di pubblicare il parere dell’Avvocatura (che avrebbe richiesto di tenere riservato il documento), sia di annullare la gara. In realtà, anche nel parere che Di Maio stesso aveva chiesto all’Anac, l’Autorità assegnava al ministero la facoltà di annullare la gara, ed è, pertanto, inevitabile che egli ne assuma tutta la responsabilità. Concentrato sull’imputare errori al governo precedente e, invece, molto magnanimo con ArcelorMittal, il ministro afferma che il sindacato e il futuro acquirente possono continuare la trattativa. Ma come si può negoziare e cercare un accordo con un’azienda che a suo parere “ha vinto una gara in modo illegittimo”?

 

La trattativa si interruppe perché sia il sindacato sia AmInvestco, il consorzio con ArcelorMittal che vinse la gara, volevano avere chiare le condizioni di partenza e le intenzioni del governo rispetto alle ipotesi di chiusura, sostenuta più volte dal Movimento 5 stelle. Il 6 agosto – in uno dei soli quattro incontri al ministero in quattro mesi – abbiamo appreso che le condizioni di partenza erano ancor più arretrate di quelle che abbiamo rifiutato con il governo precedente. Il ministro sa bene che il contratto tra commissari (che lui ha, peraltro, prorogato) e ArcelorMittal contiene espressamente la previsione che tali condizioni, anche sugli esuberi, possano essere migliorate dall’accordo sindacale.

Non ci si occupa dei lavoratori dell’Ilva e della salute dei cittadini di Taranto dando ragione contemporaneamente a chi vuole chiudere lo stabilimento e a chi vuole rilanciarlo. Risorse ancora a carico dei contribuenti e per il cui reperimento sarà necessario l’ennesimo decreto, proprio da parte di Di Maio che ha sempre contestato la numerosità dei precedenti provvedimenti.

 

Le condizioni dell’accordo

Perché ArcelorMittal potesse prendere possesso dell’Ilva, però, si è dovuto attendere settembre 2018. Non è bastata l’offerta vincente: 1,8 miliardi il prezzo di acquisto, 2,4 miliardi di investimenti (circa 2,2 miliardi al netto del contributo del gruppo Riva) entro il 2023, di cui 1,25 miliardi per il piano industriale e 1,15 di investimenti ambientali. E un’occupazione per 9.407 unità nel 2018, a fronte dei circa 14 mila addetti del gruppo (con cassa integrazione autorizzata fino a 4.100 dipendenti) del 2017.

  

L’accordo doveva essere accettato dai sindacati. Il ministro Carlo Calenda del governo Gentiloni ci prova fino all’ultimo a chiudere l’intesa migliorativa, ma non riesce a completare l’opera. Il voto del 4 marzo 2018 spazza via il vecchio governo e la palla passa nelle mani del suo successore al ministero dello Sviluppo economico Di Maio. Che prima prova ad annullare la gara per illegittimità, poi chiude – dopo una trattativa durata tutta l’estate e conclusa il 6 settembre – l’accordo migliorativo.

 

Nell’accordo del 6 settembre 2018 ArcelorMittal si impegna ad assumere 10.700 lavoratori e ad assorbire, dal 2023, i rimanenti 3.100, che nel frattempo restano sotto l’amministrazione straordinaria di Ilva in cassa integrazione, per un costo complessivo che può arrivare a 400 milioni. Molti lavoratori però potrebbero optare subito per l’incentivo all’esodo di 100.000 euro lordi. L’amministrazione straordinaria invece resterà in vita fino al 2023, con il compito di decontaminare l’area fuori dallo stabilimento, ma per l’opera di bonifica basteranno circa 400 persone.

 

L’Ilva per l’Italia

La verità è che sull’Ilva si scontrano le diverse visioni sull’industria dentro la coalizione di governo. Bisogna augurarsi che non prevalga la linea anti industriale benaltrista, già fortissima in larga parte della sinistra e ora trionfante con il M5s. Il nostro paese è in piedi grazie a un avanzo di bilancia commerciale dovuto a un ottimo surplus delle esportazioni che registriamo in modo sostanziale dal 2016 in poi. Lo scorso anno il 52 per cento delle esportazioni sono state metalmeccaniche. Non serve aggiungere altro su ruolo che può avere la domanda di acciaio che, purtroppo, ora stiamo soddisfacendo con le importazioni, in particolare dalla Germania, la Turchia, ecc. La confusione di questi anni, aggravata negli ultimi mesi, ci rende sempre più dipendenti dai tedeschi. Non solo, molti osservatori si sono chiesti perché, nonostante i tentennamenti di Di Maio, ArcelorMittal, il più grande produttore di acciaio del mondo, mostri una reazione così composta a oltre un anno dall’aggiudicazione della gara. La risposta è semplice: perché rinunciare volontariamente se, invece, con l’annullamento della gara l’investitore potrebbe andar via con le tasche piene di penali da incassare (anch’esse, come l’amministrazione straordinaria, a carico dei cittadini).

 

La vicenda Ilva è un segnale a tutto il mondo. E’ come un grande cartello che dice: “Se dovete investire state alla larga dall’Italia”. Ci vorranno decenni di buone politiche per cancellare questo messaggio devastante. Nel 2018 sale la domanda ma Ilva perde comunque. Ma il mondo è altro. Il mondo ha prodotto 8,4 milioni di tonnellate di acciaio in più a luglio 2018 rispetto allo stesso mese del 2017. Lo dice il nuovo report della World Steel Association sull’output globale di acciaio, aggiornato al 31 luglio. Nel settimo mese di quest’anno sono stati prodotti 154,57 milioni di tonnellate di acciaio, in aumento del 5,8 per cento tendenziale. Una crescita simile si registra anche se si guarda al periodo gennaio-luglio 2018: la produzione annuale al 31 luglio ammonta a 1,03 miliardi di tonnellate di acciaio, il 5 per cento in più rispetto al medesimo intervallo del 2017. Sempre la World Steel Association vede la domanda di acciaio mondiale in crescita nel prossimo biennio. Ilva ha una posizione strategica per le aree emergenti del mediterraneo: l’Europa del sud e il Continente africano. E invece siamo l’unico paese dell’area Ocse che negli ultimi mesi sta rallentando. Attorno a Ilva a Taranto, il Gruppo Marcegaglia in questi ultimi anni ha chiuso, Vestas è ridimensionata, il “benaltro” ha avuto subito il fiato corto.

 

Il 6 settembre 2018 firmiamo l’accordo. Il ministro Di Maio non firmò e dopo pochi minuti fece un video che è ormai un cult in cui dice: “Ho risolto in tre mesi quello che non hanno fatto in sei anni”. Otto giorni dopo modificò l’addendum per confermare lo scudo penale anche ai nuovi acquirenti. Il 3 settembre 2019 diviene operativa la soppressione dello scudo penale per lavoratori e dirigenti a seguito della conversione in legge del decreto “salva imprese”. Il giorno seguente, la decisione di Am InvestCo Italy di inviare ai commissari straordinari di ex Ilva S.p.A. una comunicazione di recesso dal contratto dello stesso per l’affitto e il successivo acquisto condizionato dei rami d’azienda di Ilva S.p.A. e di alcune sue controllate a cui è stata data esecuzione il 31 ottobre 2018 è gravissima. Il 6 ha compiuto il resto avviando l’art. 47 utile a “liberarsi” dei 10.700 lavoratori e rimetterli nella gestione dei commissari. Significa che entro 25 giorni i lavoratori e gli impianti dell’ex Ilva torneranno nelle mani della già rovinosa amministrazione straordinaria. Un disastro sul piano lavorativo e sociale che impatterà negativamente su oltre 20 mila lavoratori del polo siderurgico più grande d’Europa e sull’economia del Mezzogiorno e dell’intero paese, mandando all’aria un Piano industriale e ambientale di 3,6 miliardi che era stato raggiunto con molta fatica il 6 settembre del 2018. Tra le motivazioni principali che hanno portato Am a questa scelta, il pasticcio combinato in Senato sul “Salva imprese” con lo stralcio dell’articolo 14, il cosiddetto “scudo penale”, una norma che in qualsiasi altro paese non sarebbe stata necessaria ma che in Italia invece è stato necessario inserire per impedire che nell’attuazione del piano i dirigenti, ma anche i lavoratori rischiassero penalmente, quello che è poi accaduto. Si è fornito con quella scelta un alibi, clamoroso per far andar via l’azienda senza vincoli e penali, e la dipartita di Matthews Jehl e l’arrivo di Lucia Morselli lasciavano sperare poco di buono. Dal 2018, poco prima dell’accordo e da luglio 2019 era stata ribadita dall’azienda la necessità dello scudo penale come condizione per acquistare e poi per operare.

 

Dopo le europee cambia tutto

Il 6 maggio l’azienda decide di tagliare 3 milioni di tonnellate di produzione in Europa, le cause le individua nell’indebolimento della domanda, l’aumento delle importazioni, associati a un’insufficiente protezione commerciale della Ue, elevati costi energetici e l’aumento dei costi della CO2. Tuttavia conferma gli obiettivi in Italia. Ai dietrologi va detto che ArcelorMittal ha confermato tagli e chiusure di altiforni di Dunkerque in Francia e di Eisenhuttenstadt in Germania, oltre a quelli degli impianti in Polonia (a Cracovia) e in Spagna (nelle Asturie). Nel 2018 la produzione di acciaio è cresciuta ma grazie alla Cina, in Europa è calata. Il risultato delle europee mette in fibrillazione il M5s, specie in Puglia dove ritorna ad abbracciare le vecchie battaglie tradite: chiusura dell’Ilva e blocco della Tap. Nei primi giorni di giugno Arcelor smentisce gli annunci di un mese prima e apre la cassa per 1.400 persone. Da allora si riapre lo scontro, l’azienda apprende che si va verso il giudizio della corte costituzionale e riparte la discussione per togliere lo scudo penale. In quei mesi abbiamo avuto la netta sensazione che la voglia iniziale di tentare stava ogni giorno scemando.

 

Nell’accordo del 6 settembre 2018 ArcelorMittal si impegna ad assumere 10.700 lavoratori e ad assorbire, dal 2023, i rimanenti 3.100, che nel frattempo restano sotto l’amministrazione straordinaria di Ilva in cassa integrazione, per un costo complessivo che può arrivare a 400 milioni

 

La stabilità delle norme è un valore, in Italia la politica sembra seguire i precetti del celebre maestro Miyagi (ricordate? quello che spiegava come dare la cera in “Karate Kid”). Il sequestro dello stabilimento avviene, come dicevamo il 26 luglio 2012. Nel gennaio 2015 l’azienda entra in amministrazione straordinaria, lo scudo penale viene introdotto su richiesta dei commissari con il decreto legge n. 1 del 2015. L’azienda era entrata da gennaio in amministrazione straordinaria, si era in fase critica perché erano aperte tutte le conseguenze del sequestro giudiziario dell’area a caldo del 2012, e con questa norma si era voluto di fatto assicurare una protezione legale sia ai gestori dell’azienda (i commissari), che ai futuri acquirenti, relativamente all’attuazione del piano ambientale della fabbrica. Dopo la vittoria della gara per l’acquisizione ArcelorMittal chiese semplicemente di confermare la norma e ciò avvenne con il consenso del ministro Di Maio nell’addendum del 14 settembre 2018 che recita: “Nel caso in cui con sentenza definitiva o con sentenza esecutiva (sebbene non definitiva) non sospesa negli effetti ovvero con decreto del presidente della Repubblica anch’esso non sospeso negli effetti ovvero con o per effetto di un provvedimento legislativo o amministrativo non derivante da obblighi comunitari, sia disposto l’annullamento integrale del decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 29 settembre 2017 adottato ai sensi dell’art. 1, comma 8.1, del D.L. 191/2015. 

 

Ovvero nel caso in cui ne sia disposto l’annullamento in parte qua tale da rendere impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto (anche in conseguenza dell’impossibilità, a quel momento di adempiere a una o più prescrizioni da attuare, ovvero della impossibilità di adempiervi nei nuovi termini come risultanti dall’annullamento in parte qua), l’Affittuario ha diritto di recedere dal contratto”.

 

In sintesi: se cambio il quadro giuridico generale, quello in cui si è svolta la gara pubblica internazionale e secondo le normative europee che ha visto ArcelorMittal prevalere su Jindal, Arvedi, Leonardo Del Vecchio e Cassa Depositi e Prestiti, ad esempio lo scudo penale (per reati peraltro compiuti da vecchi proprietari), ciò rappresenta violazione di clausola utile a rescindere il contratto e riconsegnare stabilimento e dipendenti.

 

Non solo, nell’addendum al contratto siglato il 14 settembre 2018 si legge: “L’affittuario potrà altresì recedere dal contratto qualora un provvedimento legislativo o amministrativo, non derivante da obblighi comunitari, comporti modifiche al Piano ambientale come approvato con il decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 29 settembre 2017 che rendano non più realizzabile, sotto il profilo tecnico e/o economico, il Piano industriale”.

 

Con il decreto legge “salva imprese” del Conte 1 viene aggiunto all’art. 14 un secondo comma per lo scudo penale per ArcelorMittal. Il 5 settembre avviene il cambio di governo con il giuramento del Conte Bis. Dal 16 ottobre prima al Senato e poi alla Camera viene stralciata la seconda parte dell’art. 14 e cancellato lo scudo penale dalla nuova maggioranza di M5s, Pd e Iv. L’azienda aveva da sempre confermato, e ribadito a luglio 2019: senza immunità, noi andiamo via da Taranto il 6 settembre. Come dicevamo non è un fulmine a ciel sereno, dopo le rassicurazioni di Di Maio lo scorso 4 luglio a ArcelorMittal, la stessa lancia un primo segnale rassicurante: prende atto della nuova disposizione e dice che resterà a Taranto. Nel frattempo, approda a ottobre alla Corte costituzionale l’impugnazione di costituzionalità fatta proprio sul decreto del 2015 dal gip di Taranto, Benedetto Ruberto. Per il gip, quella norma del 2015 è anticostituzionale. Esaminando il caso, i giudici della Consulta gli rinviano gli atti chiedendogli di rivalutare, alla luce del modificato quadro legislativo, dl Crescita e dl Imprese, se il nodo di costituzionalità sussiste ancora. Il gip si era infatti appellato alla Consulta a febbraio scorso, prima cioè dei due decreti legge. Il cammino del decreto legge Imprese trova però uno scoglio in Senato, dove approda per il primo esame. Una pattuglia di senatori M5s, tra cui l’ex ministro Barbara Lezzi, sbarra il passo alla reintroduzione dell’immunità, seppure modificata, e ottiene con un emendamento l’abrogazione dell’articolo specifico. Il testo del dl passa così senza immunità penale sia in commissione al Senato, che in aula al Senato e infine alla Camera lo scorso 23 ottobre con decorrenza 3 novembre.

 

Lo scudo era stato confermato da Di Maio, ma dopo le europee e in attesa delle regionali pugliesi M5s e il Pd pugliese legato a Emiliano hanno lavorato a pancia a terra per questo risultato, raggiungendolo.

 

C’è da ricordare che il Pd aveva costruito quel provvedimento confermato dai 5s con Di Maio al Mise e poi cancellato sia da Pd che dal M5s. Schizofrenia dettate da contese interne ai partiti di governo. Olimpiadi della demagogia che conferiscono medaglie d’oro di cui c’è inflazione nella politica italiana. Un capolavoro d’incompetenza e pavidità politica di cui faranno le spese i lavoratori e l’ambiente, che dimostra la totale irresponsabilità in un momento in cui il mercato dell’acciaio è in forte calo in tutta Europa.

 

La vicenda Arcelor Mittal, è lo specchio di un paese profondamente anti-industriale che avrà per anni ripercussioni sulla percezione che si avrà fuori dall’Italia.

 

Motivi per andare via

La sera del 6 novembre, Lakshmi Mittal ha ricordato che ci sono tre problemi che li hanno convinti ad andare via: 1) la rimozione dello scudo penale 2) l’ostilità della magistratura dopo il sequestro dell’altoforno 2 dove perse la vita Alessandro Morricella. Su questo punto Mittal ha ribadito che non si chiede la sola messa in sicurezza ma il totale rifacimento. E siccome l’altoforno più grande d’Europa, il numero 5 è fermo, il 3 è spento da anni, i restanti 1 e 4 hanno tecnologie molto simili al n. 2, bisognerebbe spegnere tutto. L’Aia era stata scritta con intelligenza per rifare un altoforno (Afo) alla volta proprio per non bloccare l’impianto. Così lo stop sarebbe totale. 3) Mittal ribadisce che da quando è arrivata governo, regione e comune hanno dimostrato solo ostilità e nessuna collaborazione neanche sul piano ambientale e pensano se i loro investimenti non sono graditi sia giusto farli altrove. In effetti da molte istituzioni locali, regione Puglia in testa, è stato ribadito che “Mittal non è l’investitore idoneo” e che la sua dipartita rappresenta un’opportunità. Bisogna ricordarsi che anche rientrando in amministrazione straordinaria, gli esuberi non sono 5.000 ma subito 6.700 poiché bisogna sommare quelli dell’area a caldo e quelli in cassa integrazione ordinaria per calo di mercato.

 

E’ un peccato perché a luglio di quest’anno avevamo ottenuto la delibera per l’acquisto dei filtri di tecnologia Meros (in sostituzione dell’attuale Meep) per l’impianto di agglomerazione che consentono di dimezzare le polveri anche del camino E312. Con la copertura dei parchi si è molto avanti. Ricordo quando i Riva dicevano che era impossibile realizzarli. Un vero peccato. Il denaro per realizzare i parchi è stato anticipato da Mittal, circa 370 milioni di euro.

 

L’impatto sull’occupazione

Se si ferma l’area a caldo, sono almeno 5.000 esuberi, perché quest’area include dalle materie prime (dallo sbarco) fino agli altiforni, alle acciaierie, alle colate continue, con impatto ovviamente su manutenzione e logistica riferita a tutti questi impianti. Anche se importassimo le bramme (acciaio dopo colaggio solidificato in parallelepipedi prima di essere trasformato in prodotto finito) , bisognerebbe verificarne la qualità (al momento quella cinese non lo è) e la compatibilità economica (nel piano si prevede l’importazione di una quota da Gand, in Belgio, e Fos Sur Mer, in Francia, di bramme ma la sostenibilità economica è da verificare) con la gamma dei prodotti Ilva. ArcelorMittal ha sempre sostenuto che servono 1.000 lavoratori ogni milione di tonnellate prodotte. Una “little Ilva” rischia di non essere utile o forse tutt’al più utilizzabile come polo logistico. La retorica della multinazionale predatoria spesso non è retorica ma realtà. In questa storia la gestione politica è stata molto più predona per lavoratori e contribuenti con le loro tasse. Il costo dei sei anni dell’amministrazione straordinaria è assai più alto delle risorse per ambientalizzare e riqualificare il sito. Continuo a pensare che sia meglio far fare l’acciaio a chi lo sa fare.

   

Certo la domanda d’acciaio europea è crollata per la follia del mondo chiuso che si scontra con i dazi e per il calo dell’auto, per l’incapacità anche lì di gestire la transizione con scelte intelligenti e meno spot. Ma l’Ilva perdeva in questi anni anche quando l’acciaio tirava e grazie ai sovranisti italiani lo compravamo dalla Germania e dalla Turchia.

 

Anche l’azienda ha responsabilità, ci mancherebbe. Ma questo disastro è un capolavoro tutto politico. Il sud è ufficialmente in recessione ma mentre nel centro-nord la deindustrializzazione è iniziata, nel sud siamo alle battute finali. Fra 30 giorni, senza intervento, si torna nelle mani dell’amministrazione straordinaria. Periodo già durato sei anni, in cui sono aumentati gli incidenti e di sostanziale immobilità sul piano ambientale, di ripiegamento produttivo e cassa integrazione, costato oltre 3 miliardi. Solo il sindacato si è assunto la responsabilità di tener duro e andare avanti per bonificare il sito e far sì che non inquini più. E continueremo a farlo, ma serve una convocazione immediata del Consiglio dei ministri che ripristini lo scudo penale magari di portata generale. Altrove gli elettori scelgono politici che risolvono i problemi, in Italia ci piacciono troppo gli incompetenti che li esasperano. Ho lottato tutti questi anni accanto ai lavoratori Ilva, ci siamo presi i peggiori attacchi, “assassini” era il più gentile. Verrebbe tanto la voglia di fare un passo indietro, ma abbiamo lo davanti lo spettro di una Bagnoli 2.

 

L’alternativa ai Mittal e la cordata fantasma

Un vero piano B non esiste. Se i Mittal vanno via sarà una catastrofe. 1) Non esistono piani credibili nell’orizzonte dei prossimi dieci anni per riassorbire 12.000 persone. 2) Lo stato non sa produrre acciaio, ci è bastato il costoso disastro dell’amministrazione straordinaria. 3) La cordata alternativa non esiste: Jindal impegnata a Piombino ha ribadito nessun interesse su Ilva, Arvedi è in crisi a Trieste e non ha risorse, Del Vecchio, con il suo fondo Delfin si è chiamato fuori. Resta l’evocazione onnipresente delle crisi italiane, la Cdp. Quest’ultima può intervenire temporaneamente e in una società con bilancio in attivo. Tema eludibile creando newco ma non bastano sotterfugi: per fare un piano industriale servono investitori grandi e dotati di importanti risorse finanziarie. Poi c’è l’alternativa più gettonata ma che nessuno dice chiaramente: Bagnoli 2 e sussidi per tutti.

 

Speriamo che cresca consapevolezza ambientale, industriale e civile e che nessuno dia più fiducia agli imbonitori e ai demagoghi, a chi cerca gli applausi mentre racconta bugie e il paese muore.

 

Si potevano evitare gli incalcolabili danni alla salute, il collasso ambientale e quello dell’azienda? Senza dubbio, e non ho problemi a dire che anche come sindacato industriale abbiamo sottovalutato in passato la questione ambientale. Ma vere responsabilità riguardano i vari ministri dell’Ambiente, della Salute, i governatori della Regione Puglia, istituzioni locali, magistrati, che in troppi casi oscillano tra il credere che basti apporre cartelli di divieto o fare un ricorso e bloccare tutto o dare mano libera alle imprese. E che litigano sui dati di Arpa e Ispra quando non confermano le loro tesi. Proprio in questo periodo, in cui mentre il primo partito italiano (alle politiche) è in caduta libera, la sua cultura anti-industriale sembra aver contagiato tutte le forze politiche.

 

Ora come la Tav e molte altre partite la soluzione di questo disastro è un vero e proprio test di ultima istanza sui gruppi dirigenti italiani: non si può stare nel mezzo, il benaltrismo inconcludente va battuto una volta per tutte. Possiamo ancora realizzare il piano di sostenibilità più importante della storia europea, senza perdere lavoro. Uniamo le forze.

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