Giovanni Accongiagioco, Andrea Tessitore, Lapo Elkann (foto LaPresse)

“Per le Pmi meglio nessuna politica di questa politica”. Parla Tessitore

Fabiana Giacomotti

L’inventore del progetto Italia Independent con Lapo Elkann ci racconta la sua generazione di giovani imprenditori: "Se si è in grado di lottare, è inutile anche piangersi addosso"

Roma. “Come vanno le cose? Ma neanche male: gli imprenditori italiani hanno imparato a cavarsela da soli e l’impatto della politica, e in particolare di questo governo, sull’imprenditoria italiana, è davvero basso”. D’altronde la produzione lombarda è scesa del 10 per cento nel secondo trimestre dell’anno, secondo Unioncamere. A parlare è l’avvocato d’affari Andrea Tessitore, 46 anni, inventore del progetto Italia Independent con Lapo Elkann, avventura “straordinaria nata su un pezzo di carta bianca” nel 2007, diventata ricchissima attorno al 2011 e finita piuttosto male per molti motivi, ma di cui quello principale sembra essere stato la fine dell’interesse del nipote Agnelli.

 

Per un progetto imprenditoriale, benché con capitali, la mancanza di motivazione vera, economica, può essere fatale. “Questo paese non è fatto da Eni o da Fca: è fatto all’85 per cento da imprese piccole e medie che vanno all’estero da sole, si promuovono da sé e, se mi consente, di governo come questo se ne infischiano”, dice Tessitore con la sua vocale tonda, da torinese purosangue, anzi “della collina”. Parla col Foglio seduto a prendere il caffè su una grande terrazza di Taormina, alla “Taomoda week” sponsorizzata dal marchio di profumi Xerjoff, eccellenza torinese di cui ha acquisito un anno fa una quota di minoranza e che promuove con le stesse modalità usate, a metà del decennio scorso, per Italia Independent. Dal 2016, cioè da quando ha lasciato le deleghe di amministratore delegato del marchio di occhiali e gadget, lasciando anche in eredità agli scopiazzatori di professione, i “me too” originari, l’ormai celeberrimo modello di occhiali in velluto, Tessitore si è dedicato a Piazza Affari, come senior advisor di Borsa Italiana e responsabile della piattaforma Elite-Confindustria, e al suo ruolo originario di scopritore di talenti imprenditoriali con la sua Creare Group.

 

Classe 1973, master in Corporate Finance alla University of Virginia School of Law, esperienze professionali a New York e Londra presso gli studi Latham & Watkins e a Roma da Gianni Origoni & Grippo, Tessitore rappresenta quella generazione di investitori abbastanza giovani da saper valutare una startup per le sue potenzialità globali e abbastanza matura da avere afferrato l’ultima scia del profumo di successo dei Novanta. Con Xerjoff, che ha in portafoglio un marchio centenario di essenze come la bolognese Casamorati, nel 2018 Tessitore s’è avvicinato agli 11 milioni di ricavi, realizzati in buona parte all’estero.

 

Si sta guardando attorno con una certa sollecitudine a caccia di buoni affari. La dimensione della Pmi gli piace, e si vede. “Se si sa navigare nelle pieghe della burocrazia italiana, se si è in grado di lottare, è inutile anche piangersi addosso: l’Italia ha anche molti atout nella capacità creativa, nell’artigianalità, come sanno tutti. Poi, non ci sono dubbi che nessun governo, tranne forse il penultimo (intende Gentiloni, cioè il periodo di Carlo Calenda al Mise, nda) si sia mai preso la briga di conoscere le dinamiche di funzionamento delle piccole e medie imprese. I nostri governi scontano un problema di crescita culturale e industriale in linea con l’evoluzione del paese. Ma le Pmi, bistrattate dalle istituzioni, hanno risposto allo stesso modo. Fregandosene, si intende nei limiti. Ormai la politica ha un impatto molto basso sulla vita di un’azienda, e nessun legame”.

 

Tessitore, che pure ha casa a Milano (la moglie lavora per Chanel), continua a vivere molto la sua città di origine, aggirando quello che chiama “il pessimismo cosmico di Torino” con una serie di iniziative di “rivitalizzazione” a suo gusto (l’ultima, un portale immobiliare che sarà lanciato prima di Natale). Dice che per far funzionare le aziende bisogna lasciare l’imprenditore libero di sbagliare, almeno un po’. “Invece, nella nostra cultura industriale, lo sbaglio viene sanzionato come irreparabile, diventa una colpa senza possibilità di redenzione che crea, inevitabilmente, immobilismo”. L’errore come scuola di pragmatismo. Purché poi si impari.

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