Il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, al Forum tra Italia e Cina (Foto LaPresse)

Tutti i bluff del governo in vista della prossima legge di Stabilità

Veronica De Romanis

In autunno i gialloverdi rischiano di ripetere gli stessi errori dell'anno scorso

La procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo causata dal mancato rispetto della regola del debito è stata evitata. Il governo ha dovuto mettere in campo una correzione che Giovanni Tria ha definito “tra le più forti degli ultimi anni”. Chi investe in Italia e compra i titoli di stato ha accolto questa correzione con favore: lo  spread  è sceso sotto i 220 punti base sebbene il livello resti ancora molto elevato rispetto a quello dell’inizio dello scorso anno. La partita sui conti pubblici è, quindi, rimandata all’autunno, quando dovrà essere predisposta la legge di Bilancio: l’impegno preso dal governo con le istituzioni di Bruxelles è di continuare con il consolidamento fiscale. A ottobre dovranno  essere trovati circa 42 miliardi di euro (23 miliardi di clausole di salvaguardia, 15 miliardi di  flat tax  e 4 di spese indifferibili). Dettagli sulle coperture non sono stati forniti. Per ora, è noto solo il perimetro in cui l’esecutivo gialloverde potrà muoversi.

 

È stato lo stesso Tria a tracciarlo in un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica il 7 luglio scorso. I punti fermi sono essenzialmente quattro: primo, lo  spread  deve essere ridotto (“l’Italia dovrebbe essere al livello della Spagna”, circa 60 punti base); secondo, il debito va diminuito senza ricorrere a scorciatoie come la ristrutturazione (“solo parlarne è un atto di irresponsabilità”); terzo, gli obiettivi di bilancio devono essere rispettati (“l’Italia non deve chiedere minor rigore”); quarto, il paese resta nell’euro e non ha bisogno di monete parallele (“il dibattito sui minibot è esaurito e si poteva risparmiare visto che i pagamenti dello stato alle imprese stanno andando meglio). Dati i suddetti paletti, i margini per scongiurare l’inasprimento dell’Iva e l’introduzione della “tassa piatta” sono ristretti. Se si escludono nuove tasse e nuovo debito, non resta che ricorrere a un’incisiva revisione delle deduzioni e detrazioni e a un programma di  spending review. Questo tipo di coperture non sono nuove. I due schieramenti della maggioranza le avevano annunciate in campagna elettorale e prima della legge di Bilancio 2019.

  

 

Nulla è stato fatto, però: la spesa (in particolare quella corrente) ha continuato a crescere e gli sconti fiscali non sono stati minimamente modificati. Nessuna forza al governo ha voluto pagare il costo politico di un inasprimento della pressione fiscale o di un taglio della spesa. C’è, allora, da chiedersi perché la Lega e il M5s dovrebbero essere disposti a pagare questo costo in autunno. Perché implementare una politica fiscale restrittiva fino ad ora evitata? Cosa è cambiato rispetto a un anno fa? In realtà, qualcosa è cambiato, ma in peggio.

 

 

In primo luogo, l’ammontare da finanziare per il 2020 è maggiore di quello del 2019. Peraltro, nel caso che il governo non riuscisse nei prossimi mesi a privatizzare asset  dello stato per circa 18 miliardi di euro (una cifra mai realizzata in soli sei mesi), bisognerà trovare altre risorse per riportare il rapporto debito/pil su una traiettoria decrescente. In secondo luogo, la crescita attesa è più bassa. Nell’autunno del 2019, il governo prevedeva 1,5 per cento. La stima è stata più volte rivista al ribasso e attualmente si attesta allo 0,2 per cento: il paese è, quindi, fermo e questo immobilismo si traduce in minori entrate e maggiori uscite.

   

Infine, nonostante la speranza del premier Conte e di Salvini e Di Maio, la nuova Commissione europea sarà – verosimilmente – meno propensa a concedere margini di flessibilità di quella guidata da Jean-Claude Juncker. La candidata alla presidenza dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen è, del resto, una sostenitrice del rispetto delle regole fiscali europee e di una loro applicazione rigorosa. Trovare 42 miliardi di euro in un simile contesto non sarà, pertanto, facile. Il rischio che il governo finanzi la manovra con soldi presi a prestito è concreto: Salvini ha già detto che se la flat tax “ce la faranno fare sorridendo, la faremo; altrimenti la faremo lo stesso”. Ciò significherebbe compiere lo stesso errore dell’autunno scorso quando – nella prima bozza della legge di Bilancio – il disavanzo fu fissato al 2,4 per cento. Eppure, anche in quei giorni, Tria aveva delineato un perimetro d’azione spiegando all’annuale forum di Ambrosetti a Cernobbio che le coperture vanno trovate nei limiti delle regole europee perché “è inutile trovare due o tre miliardi se poi ne perdiamo tre o quattro nei tassi di interesse”. La storia è nota: il ministro non fu ascoltato, lo  spread  schizzò oltre 300 punti base e il governo a dicembre dovette fare marcia indietro fissando il disavanzo al 2 per cento. Le conseguenze di quei mesi le stiamo ancora pagando in termini di maggiore spesa per interessi e maggiore costo del credito per famiglie e imprese. Replicare lo stesso schema consegnerebbe il paese a un ennesimo periodo d’instabilità.  Eppure, Tria è stato chiaro: “L’unico motivo per cui lo  spread  italiano è più elevato è l’incertezza che si è creata”.  Speriamo che questa volta i suoi colleghi di governo lo ascoltino. 

Di più su questi argomenti: