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Perché le raccomandazioni europee all'Italia ci dicono che il meglio è passato

Luciano Capone

L’Ecofin adotta le dure indicazioni della Commissione per evitare una nuova procedura. Guai con quota 30 (miliardi). Tutti i conti che non tornano

Roma. Il peggio non è passato, è stato solo rinviato. E il confronto-scontro con l’Europa si ripresenterà in autunno in maniera più intensa rispetto agli ultimi mesi, visto che in ballo c’è una correzione dei conti molto più consistente. Il governo è riuscito, con una manovra correttiva in extremis, a evitare la procedura d’infrazione per deficit eccessivo basata sulla regola del debito, ma presto dovrà fare uno sforzo superiore. Almeno tre volte più grande. L’Ecofin – il Consiglio composto dai ministri delle Finanze degli stati dell’Unione – nella conclusione del semestre ha adottato le raccomandazioni economiche per gli stati membri già espresse a giugno dalla Commissione. E per l’Italia le raccomandazioni, che servono proprio a scongiurare di nuovo la procedura d’infrazione, sono particolarmente impegnative vista la condizione squilibrata dei conti pubblici per il prossimo anno.

 

Il ministro dell’Economia Giovanni Tria e tutto il governo devono “assicurare una riduzione in termini nominali della spesa pubblica primaria netta dello 0,1 per cento nel 2020, corrispondente a un aggiustamento strutturale annuo dello 0,6 per cento del pil”, inoltre devono usare tutte le entrate straordinarie per “la riduzione del rapporto debito pubblico/pil”. Per raggiungere questo obiettivo ci sono anche alcuni suggerimenti, come “attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni nella spesa pubblica e creare margini per altra spesa sociale e spesa pubblica favorevole alla crescita” (che però vorrebbe dire rinunciare a “quota cento”), fare lotta all’evasione fiscale, riformare la Pa, favorire la concorrenza.

 

Ma al di là dei suggerimenti sulle politiche da adottare, ciò che conta è l’obiettivo di bilancio da raggiungere che è particolarmente sfidante: un aggiustamento strutturale dello 0,6 per cento. Basti considerare che, secondo il Def, nei prossimi anni il saldo strutturale è previsto migliorare della metà, lo 0,3 per cento, presupponendo un aumento dell’Iva pari all’1,3 per cento del pil nel 2020 e dell’1,5 per cento a partire dal 2021. “Questo vuol dire che, senza fare nulla, prima cioè di valutare qualsiasi altro provvedimento, bisogna trovare 23 miliardi – dice al Foglio Lorenzo Codogno, a lungo capo economista del Mef – e non è detto che siano sufficienti per una correzione strutturale dello 0,6, perché probabilmente serve qualcosa in più. Per tutto ciò che il governo vuole introdurre con la prossima manovra si devono trovare risorse aggiuntive”. Vuol dire che la maggioranza, prima di impostare la prossima legge di Bilancio, parte con un buco vicino ai 30 miliardi che deve riempire con maggiori tasse o minore spesa. E’ vero che con l’Europa c’è sempre un margine di trattativa per ottenere flessibilità, ma questa dovrebbe arrivare in cambio di riforme che vanno nella direzione delle raccomandazioni (che vuol dire rinnegare tutto ciò che è stato fatto nel primo anno) o per spese causate da eventi eccezionali (come è stato per il crollo del ponte di Genova) che nessuno si augura e che comunque non cambiano la sostanza del problema e i requisiti per essere in regola.

 

All’interno di questo perimetro non c’è quindi spazio per alcun “tesoretto” da spendere, come annunciava solo qualche mese fa Luigi Di Maio, né per lo choc fiscale sbandierato da Matteo Salvini. Il taglio delle tasse, secondo gli impegni ufficialmente presi con l’Europa da Tria e dal premier Conte, dovrà avvenire rispettando i saldi di bilancio, quindi trovando ulteriori risorse rispetto a quelle che già servono per coprire le clausole di salvaguardia e ridurre il disavanzo strutturale. “Il governo ha dichiarato che le risorse arriveranno dalla revisione della spesa e delle tax expenditures – dice Codogno, che ora segue le vicende dell’economia italiana da visiting professor alla London School of Economics e attraverso la società di consulenza LC Macro Advisors –. Il taglio delle tax expenditures implica un aumento della pressione fiscale, che può anche avere esiti virtuosi se riduce le distorsioni del nostro sistema fiscale. Magari il governo troverà risorse per la sua riforma fiscale rivedendo il ‘bonus 80 euro’, ma i margini non sono ampi”. Lo si è visto con la correzione avvenuta in fase di assestamento. “E’ sembrato che l’Italia si sia messa a raschiare il fondo del barile, iniziative nuove e strutturali non ce ne sono state né se ne vedono all’orizzonte”. I mercati però hanno reagito bene. “Sono meno spaventati, hanno accolto positivamente i passi indietro dell’Italia, anche se l’assestamento è prevalentemente contabile. Ma il problema vero è la dinamica del debito pubblico, perché con un deflattore del pil basso e una crescita nominale scarsa si fa un’enorme fatica ad assestare il rapporto debito/pil. Su questo serve un segnale importante”.

 

Le previsioni del governo e dell’Europa mostrano infatti un debito pubblico in leggera crescita – dal 132,2 al 132,6 per cento –, includendo però per quest’anno proventi dalle privatizzazioni pari all’1 per cento del pil, circa 18 miliardi, che però esistono solo sulla carta. Al momento non c’è stata alcuna privatizzazione, né è stato presentato un programma da qui a fine anno. Senza queste entrate, a fine anno, il debito mostrerà una dinamica ancora più preoccupante. C’è da dire però che al momento i mercati sono meno tesi, lo spread è in calo – pur mantenendosi oltre quota 200 – probabilmente perché le due retromarce in sei mesi della maggioranza, una da 10 miliardi a dicembre e l’altra da 7,5 miliardi pochi giorni fa, hanno convinto gli osservatori che la minaccia di Matteo Salvini all’Europa (“se ci faranno fare la flat tax sorridendo, la faremo. Altrimenti la faremo lo stesso”) cadrà di nuovo nel vuoto. “Questo non è detto – dice Codogno – stavolta la correzione è molto più consistente, il costo politico è più grande, e potrebbe esserci la tentazione di andare fino in fondo”.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali