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It's the economy, stupid

L'Italia in trappola nella quiete che precede la tempesta

Stefano Cingolani

Catalogo delle nuvole nere già addensate all’orizzonte. Dal deficit al debito, dal pil agli investimenti, i pericoli da affrontare in vista dell’appuntamento fatale con la legge di Stabilità per il 2020. Lo spettro degli interventi straordinari

Aprile è il mese più crudele? Forse nel mondo di Thomas Stearns Eliot, in Italia invece il più crudele è senza dubbio settembre, e lo è diventato per lo meno da quel fatidico settembre 1992 quando la lira chiuse il suo ciclo millenario e il governo guidato da Giuliano Amato mise le mani nei conti correnti degli italiani. Di mesi nient’affatto buoni, in realtà, di qui all’appuntamento fatale con la legge di Stabilità per il 2020, ce ne saranno parecchi: c’è giugno, quando chi ha vinto alle elezioni europee vorrà il bastone del comando; c’è agosto, quando scoppiano regolarmente le tempeste finanziarie. Nubi oscure si sono già accumulate all’orizzonte.

 

La ricchezza privata degli italiani che è grande (9.000 miliardi di euro contro 2.300 miliardi di debito pubblico), ma fragile

Nelle istituzioni internazionali come il Fondo monetario, tra gli operatori di Borsa e le agenzie di rating, si fa strada la convinzione che l’Italia non ce la faccia a uscire dalla palude nella quale è intrappolata, a meno di non ricorrere a interventi straordinari. Quali? Due spettri s’aggirano per l’Europa, entrambi pronti a ghermire la ricchezza privata degli italiani che è grande (9.000 miliardi di euro contro 2.300 miliardi di debito pubblico e un prodotto lordo annuo di 1.700 miliardi), ma fragile. I fantasmi si chiamano patrimoniale e taglio forzoso del debito. L’uno e l’altro richiamano un mostro a tre teste che tutti i governi italiani hanno cercato di tenere lontano: la Troika. Proviamo allora a scrivere un dizionario dei pericoli prossimi venturi, non in ordine alfabetico, ma logico. Il primo è quel rapporto matematico tra i tassi d’interesse sui titoli di stato che abbiamo imparato a chiamare spread.

  

Lo spread

È bastato un flatus vocis, anche se è la voce di Matteo Salvini, per far balzare lo spread a quota 290 punti base, ovvero il 2,9 per cento

E’ bastato un flatus vocis, anche se è la voce cavernosa di Matteo Salvini, per far balzare a quota 290 punti base, ovvero 2,9 per cento, il differenziale tra gli interessi pagati sui Btp decennali e gli equivalenti Bund tedeschi. “Se servirà infrangere alcuni limiti del 3 per cento sul deficit o del 130-140 per cento sul debito tiriamo dritti”, ha detto il vicepresidente del Consiglio. Si è riproposta la stessa situazione dello scorso autunno quando, in pieno braccio di ferro con l’Unione europea, lo spread è arrivato a quota 318. A quel punto Rodomonte ha abbassato il cimiero, si è arrivati a un compromesso (anche se un po’ ridicolo) su un disavanzo del 2,04 per cento e lo spread è sceso a 250 per poi risalire a primavera. Le conseguenze sono allarmanti per le banche, che detengono una grossa fetta di titoli di stato (circa 300 miliardi di euro). E stiamo parlando di Intesa Sanpaolo, Unicredit, delle Assicurazioni Generali. In Borsa sono proprio i titoli bancari a soffrire di più, perché gli operatori temono che una esposizione eccessiva verso il debito pubblico renda fragili le aziende creditizie, anche quelle ben gestite. Un elevato costo del denaro ha ricadute pratiche per esempio sui mutui a tasso variabile, ma forse la conseguenza più pesante è una stretta ai prestiti, provocata dalla necessità di coprirsi dalla tempesta sovrana e trovare nuovo capitale per consolidare il patrimonio. L’anno scorso lo spread è costato 5 miliardi di euro, stima la Banca d’Italia, potranno diventare 9 se si supera stabilmente quota 300. Gli ottimisti dicono che tutto questo psicodramma durerà fino alle elezioni europee (quindi è questione di un paio di settimane); ma se è vero che dopo il voto ci sarà quella resa dei conti che molti si aspettano, è improbabile che le tensioni politiche si riducano.

 

 

Il deficit

Il disavanzo viaggia oltre il limite concordato. E quota 100 e reddito di cittadinanza non hanno ancora fatto sentire i loro effetti

La minaccia di Salvini va presa sul serio. Il disavanzo viaggia oltre il limite concordato, siamo infatti attorno al 2,5 per cento del pil. Ma attenzione, il reddito di cittadinanza e quota 100 non hanno ancora fatto sentire i loro effetti. E’ vero che nessuna delle panacee populiste ha avuto finora l’impatto promesso. Le richieste per il reddito sono minori del previsto e molte domande non hanno i requisiti necessari, tanto che si parla già di un “tesoretto” di un miliardo che potrà essere dedicato ad altre redistribuzioni assistenziali, secondo gli intenti di Luigi Di Maio. Quanto alle pensioni, non sembra esserci quella corsa a liberarsi dal lavoro (parole di Salvini), il paradosso è che sono i dipendenti pubblici non quelli privati a volere la pensione anticipata, il che la dice lunga sulla trasformazione della Lega che preferisce gli statali agli operai e alle stesse partite Iva (tra l’altro una delusione viene anche dalla flat tax sui piccoli imprenditori di se stessi). Quindi alla fine dell’anno si spenderà meno del previsto? E’ probabile, ma questo ragionamento trascura l’impatto a medio-lungo termine dei due provvedimenti, che si comincerà a sentire già l’anno prossimo. Sia il Fondo monetario sia la Ue vedono un deficit pubblico avviato, spontaneamente, verso il 3,5 per cento, mentre viene azzerato l’avanzo strutturale. Il debito salirà dal 132 per cento attuale verso il 135 per cento e forse oltre. E’ quel che ha detto Salvini, il quale ha aggiunto che lui di questo non si preoccupa affatto.

 

Il debito

Storia e teoria dicono che i paesi ad alto debito perdono sovranità e sono condannati al ristagno, anche quando battono moneta

La teoria degli ideologi leghisti condivisa in gran parte anche dai pentastellati, è che il debito non conta. Solo che l’Italia fa parte di una zona monetaria integrata nella quale il debito conta eccome. “Infatti il problema è la moneta unica”, ribattono gli euroscettici: se l’Italia potesse svalutare la propria moneta il debito potrebbe salire, come quello giapponese, senza nessun impatto negativo. La storia, non solo la teoria, dice che non è così. I paesi ad alto debito perdono sovranità e sono condannati al ristagno, anche quando battono moneta. Questo è vero per lo stesso Giappone e varrebbe la pena analizzare in modo oggettivo i trent’anni si stagnazione nipponica, la sua perdita di egemonia economica e la sua dipendenza politica in un Pacifico dominato dalla Cina. L’Italia indebitata era fragile anche con la lira la cui morte è stata firmata non con il trattato di Maastricht, ma con la catastrofica crisi valutaria culminata mercoledì 16 settembre 1992, il mercoledì nero. Al debito che sale guardano sia gli investitori istituzionali sia i risparmiatori italiani. Quest’anno ci sono da rinnovare titoli per 200 miliardi di euro. Tutti si chiedono: a che prezzo? E nella mente si fa strada una domanda davvero drammatica: fino a che punto la Repubblica italiana onorerà i propri impegni?

 

La sostenibilità

C’è una formuletta che gli economisti usano per orientarsi. Da una parte il costo degli interessi annui e dall’altra il reddito che si riesce a ricavare in termini monetari, cioè tenendo conto della crescita dei prezzi. Se il tasso di crescita del reddito è maggiore del tasso di interesse annuo, allora è possibile pagare il servizio del debito. E’ la regola che usano in banca quando si chiede un prestito, e se i guadagni non sono sufficienti, allora si mette mano all’argenteria di famiglia. Applicata a uno stato sovrano il reddito prodotto è il pil annuo: finché è superiore agli interessi sui titoli pubblici, il debito è sostenibile. Lo scorso anno, con una crescita monetaria vicina a due punti percentuali e interessi saliti verso due punti e mezzo gli investitori hanno cominciato a inarcare le sopracciglia. Quest’anno, se non ci saranno peggioramenti, si prevede un aumento del pil nominale di poco superiore a un punto con tassi vicini al 2,5 per cento. Se è così, la sostenibilità diventa un problema concreto. O si riduce il debito anche con misure straordinarie o sale il pil. Salvini dice che il debito lo vuole aumentare. Quanto alla crescita…

 

Il rating

All’economia reale, non solo ai parametri della finanza pubblica, guardano le società che pubblicano le pagelle sul debito di un paese

All’economia reale, non solo ai parametri della finanza pubblica, guardano le società che pubblicano le pagelle sul debito di un paese. Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch hanno rinviato il loro giudizio a settembre. Sia perché ci sono le elezioni europee, sia per valutazioni che dimostrano buon senso e responsabilità, al di là di quello che hanno sempre detto leghisti, pentastellati e i magistrati di Trani. Il debito italiano è classificato due livelli più dell’insufficienza (la lettera C) che lo ridurrebbe a “spazzatura”, rendendolo altamente speculativo, cioè invendibile a meno di non pagare interessi stratosferici. A quel punto, la Repubblica italiana sarebbe fuori mercato trascinandosi dietro anche le banche e molte grandi imprese, quindi non potrebbe far altro che chiedere aiuto alle istituzioni internazionali, al Fondo monetario e alla Bce in primo luogo, le quali per intervenire chiederebbero un programma di rientro lacrime e sangue. Come in Grecia. Se l’Italia alzasse bandiera bianca prima di arrivare al punto di non ritorno potrebbe ottenere un occhio di riguardo e una pillola meno amara, come la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda. Ma nessun governo italiano, né Berlusconi, né Monti, né Renzi, né Gentiloni, lo hanno voluto. Chi ha memoria e qualche annetto sulle spalle rabbrividisce ricordando quel che avvenne negli anni Settanta. E se si arrivasse all’armageddon finanziario, quando si scontrano in campo aperto gli eserciti del bene e del male? C’è chi, soprattutto tra i gialloverdi, pensa che sia un trauma liberatorio, sono quelli del piano B, quelli del complotto pluto-giudaico-massonico, quelli che combattono i bankster e vogliono uscire dall’euro, insomma una fauna variegata, diffusa e rumorosa.

 

Il default

Le conseguenze dell’aumento dello spread sono allarmanti per le banche, che detengono titoli di stato per circa 300 miliardi

Uno stato anche grande può fare fallimento in due modi: in forma limitata e governata (la Grecia per intenderci) o in forma assoluta e sregolata (l’Argentina). Secondo molti osservatori, è diffusa anche ai vertici del Fmi e sulle piazze finanziarie internazionali l’idea che l’Italia sia matura per “un default ordinato”. Circolano già delle ipotesi: tagliare il debito pubblico del 20 per cento, facendo pagare sia i risparmiatori italiani sia quelli stranieri. Quelli del piano B e affini, in realtà, hanno sempre pensato che si possa ridurre il debito facendo pagare solo gli altri, perché convinti che sia la finanza internazionale a strangolare l’Italia. In realtà, solo un terzo dei titoli di stato sono in mano estera, il resto è nelle tasche della Bce e degli italiani direttamente o attraverso le istituzioni finanziarie. Un taglio del 20 per cento sul valore dei 300 miliardi posseduti dalle banche significa abbattere i loro bilanci di 60 miliardi di euro da trovare sull’unghia per non rischiare il collasso. Se ne capisce meglio la portata ricordando che la prima banca italiana, Intesa Sanpaolo, ha una capitalizzazione di 37 miliardi. Quanto ai privati, una tosatura del genere li metterebbe a terra. Altro che l’austerità. Esiste davvero un default ordinato?

 

 

 

L’ordalia

Un taglio del debito del 20 per cento, sul valore dei 300 miliardi posseduti dalle banche significa abbattere i loro bilanci di 60 miliardi

A Roma arriverebbe la trimurti, o meglio la famigerata Troika, per imporre una ricetta indigesta all’economia e alla società italiana. Poco digeribile sarà la prossima legge di Stabilità che ha già assunto la dimensione di una ordalia. In campagna elettorale i due partiti di governo hanno promesso l’impossibile. Luigi Di Maio vuole altra assistenza: estendere il reddito di cittadinanza aumentandolo a mille euro, distribuire quattrini alle famiglie, premiare i gruppi d’interesse che li sostengono, a cominciare dall’establishment digitale, salvare il salvabile e anche il non salvabile, dall’Alitalia alla Carige. Matteo Salvini vuole la flat tax che piatta proprio non è, perché si tratterebbe in ogni caso di due aliquote e quattro scaglioni, visto tra l’altro che la Costituzione italiana vuole un’imposta sui redditi progressiva e non proporzionale. Quanto costeranno questi impegni (se verranno confermati a urne chiuse) nessuno è in grado di prevederlo finché dagli slogan e dalle etichette non si arriverà a presentare misure concrete, ma si tratta, a spanne, di parecchie decine di miliardi. Senza crescita non ci sono. E qui veniamo al dilemma del pil.

 

Il prodotto lordo

Il grande mistero del pil. Il rispetto delle clausole di salvaguardia: non si vede proprio come evitare l’aumento dell’Iva

E’ un gran mistero. Il 2018 si è chiuso in discesa, con una “recessione tecnica”, cioè due trimestri consecutivi con variazione negativa. E tutti a prevedere una recessione lunga. Invece il primo trimestre di quest’anno ha mostrato un segno più, siamo solo a +0,2 per cento sia chiaro, ma il rimbalzino ha fatto scrivere che la mini-recessione è finita e lascia il posto a un mini-boom. Non esageriamo, con zero virgola nessuno si fa illusioni, tanto meno Giovanni Tria. Il ministro dell’Economia parla di stagnazione e non pensa che ci sia spazio per lo spendi e spandi. Gli spin doctor del governo ironizzano sui poteri divinatori degli economisti, ma illudono i loro patron perché non c’è trippa per gatti. Niente catastrofismi, niente giudizio divino, ma nemmeno voli aquilonari o fiere della vanità. Invece, un sano esercizio di ragioneria contabile per rassicurare i mercati, le imprese, le famiglie.

 

Gli investimenti

Il keynesismo alla carbonara (senz’uovo se pentastellato con l’uovo se leghista) sostiene che tocca al governo rilanciare la domanda interna, da un lato distribuendo quattrini ai consumatori, dall’altro con gli investimenti pubblici. In realtà la spinta principale viene dagli investimenti privati. Essi sono sì sensibili a sostegni, incentivi, sussidi, promozioni, tuttavia quel che conta è la migliore combinazione dei fattori produttivi. Ciò significa produttività del lavoro e innovazione, due temi che non fanno parte del programma di governo né, purtroppo, del dibattito di politica economica. Gli investimenti pubblici aiutano, sia chiaro, soprattutto nell’edilizia hanno un effetto moltiplicatore molto elevato, sono un volano essenziale, sono un motore, ma per ora sono il primo motore immobile. Lo sblocca cantieri è una farsa. Da una parte c’è l’avversione del M5s per i cantieri (parlano di piccole opere, ma in lista di attesa ci sono pezzi di autostrade, ponti, passanti ferroviari, non le fontanelle di quartiere). Dall’altra c’è una Lega che promette (e non fa) di far cadere vincoli burocratici e anche giudiziari. Così tra la decrescita felice e lo spettro della mafia, passano i consigli dei ministri, ma il decreto resta nei cassetti.

 

 

L’Iva

Non si vede proprio come evitare l’aumento delle imposte indirette, ovvero il rispetto delle clausole di salvaguardia per chi viola le regole del deficit e del debito. Giuseppe Conte lo ha detto chiaramente: “Sarà molto difficile, anche se faremo il possibile”. Tria spinge per accettare l’inevitabile e gestirlo al meglio, pilotando un aumento parziale su alcuni beni. Trovare 23 miliardi in pochi mesi è pressoché impossibile, quindi meglio ingoiare questa pillola che in fondo può rivelarsi meno amara del previsto. C’è un impatto sui prezzi? Sì, però l’inflazione è bassa, praticamente non esiste e sono in molti a pensare che bisognerebbe farla crescere anche oltre il due per cento, obiettivo non ancora raggiunto dalla Bce. Si colpiscono i consumi? Dipende dai beni sui quali la si applica. In ogni caso ci sarebbe un certo margine per ridurre altre imposte, a cominciare da quelle sui redditi. L’obiezione è che da una parte si prende e dall’altra si dà, così che la pressione fiscale resta invariata (se tutto va bene), il deficit non migliora e nemmeno la crescita. Non solo: uno scambio Iva-Flat tax non piace ai Cinque stelle, i quali propongono il triangolo Iva-Irpef-tasse sui ricchi.

 

 

La patrimoniale

Tra le nubi che si stanno accumulando all’orizzonte è forse la più tempestosa. Porta con sé conflitti politici e sociali, mentre non avrebbe nessun impatto positivo sull’economia italiana. Ne parlano in molti e dai fronti più diversi: Fmi, Ocse, Bundesbank, la Cgil, i partitini di sinistra e ovviamente i pentastellati. Ne parlano i banchieri, gli imprenditori, i risparmiatori e il solo parlarne ha già creato reazioni negative. I pentastellati hanno in mente un’imposta sulle grandi fortune alla francese, ma più estesa, tanto da tosare tra i 30 e i 40 miliardi (insomma tra le stime di Piketty e quelle di Landini). Come? Si pensa di toccare tutti i patrimoni, dalle case alle azioni, oltre un certo tetto. Quello francese è a un milione e 800 mila euro, troppo alto, perché se ne ricavano solo 4 miliardi di euro. Non solo, in Italia accertare i valori dei patrimoni immobiliari è molto difficile e c’è in stand-by una riforma del catasto che, se attuata, provocherà un salasso. Dunque è difficile, anzi pressoché impossibile proporre altre imposte sulle case. Non resta che la ricchezza finanziaria (oltre 4 mila miliardi di euro mentre quella immobiliare supera i 5 mila miliardi); arrivarci è più facile, soprattutto se la si prende a partire dai depositi bancari, magari sopra i 100 mila euro. E’ già successo in un’altra congiuntura critica, quando la lira crollò e uscì dal sistema monetario europeo. Nella notte tra il 9 e 10 settembre, Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio, decise di prelevare il 6 per mille dai conti correnti a partire dal giorno dopo. Il decreto porta la data dell’11 settembre, ma era retroattivo. Insieme a una imposta straordinaria sugli immobili del tre per mille (diventata poi l’ordinaria Ici) fruttò 11.500 miliardi di lire, però la stangata arrivò a 90 mila miliardi (con tasse sulle case, ticket sanitari, allungamento dell’età pensionabile), pari a circa 46 miliardi di euro, più o meno quello di cui avremmo bisogno per raddrizzare i conti pubblici. Allora non bastò a salvare la lira italiana ormai condannata insieme alla lira sterlina. E oggi? Tra nubi, ombre, rumori di tempesta, lo spettro del settembre nero turba le notti del governo gialloverde e degli italiani.

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