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Sugli scaffali dell'anti sovranismo

Alberto Brambilla e Renzo Rosati

Con l’acquisto degli Auchan la Conad sfida il tic della “conquista francese” e le Coop. Ma continuare a seguire tendenze e abitudini di consumo sarà una cavalcata contro sfiducia e politiche anti mercato

Con l’acquisizione per un miliardo di euro della maggiore parte delle attività italiane della francese Auchan (1.600 punti vendita), il gruppo Conad realizza l’obiettivo inseguito da anni: diventare leader nazionale della grande distribuzione, con una quota di mercato che sale dal 13 al 19 per cento e un fatturato che sulla base dei dati 2018 vale 17,1 miliardi. Ma di risultati ce ne sono altri, seppure sottintesi.

    

Un risultato è quello di avere l’avere smentito la retorica della “conquista straniera”, soprattutto francese, dei supermercati italiani e del modello cooperativo. La discesa transalpina inizia nel 1989 con Auchan che arriva fino a 1900 punti vendita di cui 58 ipermercati; prosegue nel 1972 con Carrefour che acquista punti vendita da Marco Brunelli, ex socio dello scomparso patron di Esselunga Guido Caprotti, si perfeziona nel 2010 quando le insegne Carrefour sostituiscono le Gs. Ora la tendenza si inverte, anche se premono i gruppi tedeschi come Lidl e Aldi, delle catene di discount. La guerra si combatte principalmente su tre filoni: l’internazionalizzazione e le sinergie negli acquisti, le dimensioni con il potenziamento degli ipermercati, gli scaffali dove accanto ai prodotti economici devono appunto essere presenti le fasce alte, le nicchie, il biologico. La vicinanza con i megastore extraurbani, i mall, le multisale, è importante così come i piccoli market cittadini.

       


   

   Infografica di Enrico Cicchetti (clicca sull'immagine per ingrandire)


      

Il secondo indicatore è il cambiamento delle abitudini di acquisto degli italiani che affrontano la spesa con un occhio alla tendenza generale dell’economia nazionale. La fiducia dei consumatori italiani, a inizio anno, era di almeno 20 punti punti inferiore alla media europea e di quasi 40 punti più bassa della media mondiale. Essere il primo “grande magazzino d’Italia” comporta la capacità di sapere navigare l’attitudine dei consumatori e riporla alla giusta altezza negli scaffali del supermercato affinché l’offerta venga raccolta. A marzo il rivenditore francese aveva dichiarato che stava conducendo una revisione dei suoi mercati in perdita, sia in Italia sia in Vietnam, dove ha dovuto affrontare condizioni di mercato difficili. Auchan si riferiva a un pubblico sostanzialmente abbiente che si riforniva in semi-periferia. Un portavoce di Auchan ha dichiarato che “il business era in grande difficoltà, stiamo lasciando a Conad una situazione finanziaria che consentirà di avere successo con il suo progetto di acquisizione”. I termini del successo dipendono in larga parte da Conad, che, come ha spiegato l’amministratore delegato Francesco Pugliese, derivano dall’analisi delle abitudini di consumo degli italiani che si sono modificate nel tentativo di preservare il reddito disponibile con un atteggiamento più conservativo rispetto al periodo precedente la crisi e alla calata di Auchan. “Cresciamo cercando di tutelare il potere di acquisto degli italiani – ha detto Pugliese al Foglio a dicembre commentando i dati Nielsen sulla fiducia dei consumatori – Abbiamo tenuto conto del fatto che negli ultimi tempi è cambiato il modo di fare la spesa. Riempire una tantum il carrello di prodotti in offerta non va più di moda. Le persone vogliono trovare una convenienza continuativa sui prezzi e preferiscono diluire gli acquisti andando anche tre volte alla settimana al supermercato perché così tengono sotto controllo il budget”.

   

Il terzo risultato è che Conad scalza dal primato Coop, entrambe nate e con sede a Bologna e provincia (a Casalecchio la Coop), tutte e due negli anni Sessanta, figlie allora, specie la prima, della potenza crescente delle cooperative rosse e relativa roccaforte emiliana. Cugine diverse però (Coop è rimasta organica alla Lega nazionale cooperative e mutue, a sua volta erede del mutualismo socialista e poi per decenni vicina al Pci; Conad benché anch’essa nella Legacoop, nasce nel boom economico del secolo scorso come coordinamento di gruppi d’acquisto organizzati del nord Italia), e negli ultimi tempi apertamente rivali. Dopo l’insuccesso della scalata alla Bnl da parte di Unipol, la compagnia assicurativa passata nel ’63 dalla Lancia di Carlo Pesenti alla Federcoop, e nel pieno della susseguente guerra interna, Conad ruppe i legami politici e si pose in diretto antagonismo commerciale con Coop. Al punto da sollevare le reazioni stizzite di quest’ultima: “Tutti hanno il diritto di sognare ma non ci sentiamo insidiati”, dichiarò nel 2007 Vincenzo Tassinari, storico presidente di Coop Italia. Il sorpasso è oggi completato grazie soprattutto alla strategia di internazionalizzazione e di attenzione ai marchi incrementata da Pugliese, amministratore delegato di Conad dal 2014, con riguardo oggi alle preferenze di consumo spostate sul biologico e salutismo mentre, al contrario, più distanti da prodotti carichi di zuccheri e grassi.

    

Il consumatore, e il mercato, come bussola non sono una novità di certo nella grande distribuzione. Tuttavia è invertita la tendenza antica di offrire al consumatore quello che vorrebbe, giacché il consumatore sa quello che vuole, quanto può spendere, e si aspetta di trovarlo sullo scaffale possibilmente compatibilmente con il tempo disponibile dopo l’orario o la settimana di lavoro. In questo senso in Italia la grande distribuzione, nel tentativo di inseguire il consumatore, si trova in difficoltà a causa dell’opposizione politica come nel caso del progetto di chiusura domenicale di Lega e 5 Stelle. “Una proposta indecente”, l’ha definita a febbraio scorso, in parlamento, il segretario generale di Ancd Conad Sergio Imolesi. “Se approvata rappresenterà una battuta d’arresto per un comparto produttivo vitale in un paese che vive di commercio, senza distinzioni tra grandi catene e piccoli negozi che spesso sono franchising”. Anche la Coop ha inizialmente combattuto l’obbligo di chiusura, poi si è dichiarata disponibile a domeniche chiuse selettive, infine ha nuovamente invocato un fronte comune contro il blocco.

   

Anche perché i numeri della grande distribuzione italiana sono ancora ben distanti dal resto dei paesi più avanzati. Da quando è esplosa Amazon tutti si interrogano per esempio sul futuro di Walmart, la big americana e mondiale dei grandi magazzini. Eppure con 495 miliardi di dollari (il pil della Svezia) Walmart resta saldamente in testa alla classifica mondiale dei fatturati, distanziando le multiutility cinesi, le big del petrolio e dell’auto e dando la polvere ad Apple. E alla stessa Amazon. Il bilancio 2018 ha superato le stime degli analisti anche per altri motivi: più della metà delle vendite viene dall’alimentare e altri prodotti di base irrinunciabili, oltre il 70 per cento sono targati Usa, i fornitori di generi non confezionati si trovano entro le dieci miglia dai supermarket, l’e-commerce è in aumento del 40 per cento; in Italia è molto più contenuto soprattutto per la consegna di prodotti freschi. Un esempio di “glocal” che potrebbe essere applicato in Italia (alle sue eccellenze alimentari e micro-manifatturiere), e che dimostra per l’ennesima volta che non si deve aver paura né della tecnologia né del mercato. Secondo il Rapporto Mediobanca 2018 sulla grande distribuzione italiana, il settore ha raggiunto gli 83 miliardi di fatturato, con aumenti annui del 5 per cento, ma i margini di guadagno non sono gli stessi per tutti. Conad era già più performante di Coop, evidenziava Madiobanca, bene se la cavavano Esselunga, Eurospin, Selex e Lidl, male le francesi. E’ la produttività, non la nazionalità, a creare ricchezza. Il problema, oltre alle follie autarchiche, sta ovviamente poi negli umori dei consumatori.

    

L’8 maggio un sondaggio Censis-Conad intitolato “Sogno di un paese che vuole crescere” ha raccolto tre dati: per il 55,4 della popolazione negli ultimi mesi l’economia è peggiorata, per il 36,9 rimasta uguale, per il 7,7 peggiorata. Il secondo dato riguarda l’ordine pubblico: in miglioramento per il 10,1 per cento, in peggioramento per il 42,3. Terzo dato: il 48,4 ritiene che il peggio debba ancora arrivare, il 16,9 che la situazione migliorerà. Ovvero. Se negli Stati Uniti post Lehman Brothers la fine tangibile della crisi venne decretata dagli assalti del Black Friday 2013 a Wallmart e agli Apple store, nell’Italia di oggi vincere la battaglia dei carrelli, da sola non basta più. Serve il ritorno alla decenza economica, dopodiché il mercato e i consumatori fanno la loro parte. Più di tutto anche perché l’operazione miliardaria di Conad abbia successo è che siano lasciati liberi di farlo.