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Il “territorio” come alibi e l'inerzia come prassi per non risolvere le crisi

Beniamino Andrea Piccone

Molti hanno nicchiato (magistratura compresa) sul credito agli “amici degli amici” della banca ligure. Molti, ma non Bankitalia

La notizia che BlackRock, il più grande asset manager del mondo abbia rinunciato al salvataggio di Banca Carige – considerando l’operazione troppo rischiosa – ci deve indurre a capire come mai siamo arrivati a questo punto. Perché il metodo di gestione delle crisi bancarie è improntato all’inerzia, a rimandare in avanti la decisione, alla tentazione sempiterna che i problemi si risolvano col tempo. Nel caso del banking – che funziona a leva secondo i rapporti patrimoniali di Basilea – posporre significa ingigantire i problemi, che sono di struttura. Quello che si vuole, invece, è l’intervento salvifico dello stato, ossia del contribuente, nonostante l’Unione bancaria preveda il bail-in, il coinvolgimento degli obbligazionisti ed eventualmente dei correntisti.

 

Oggi nessun investitore è disposto a mettere soldi in Carige. Solo il Fondo interbancario di tutela dei depositi (le cui banche sottoscrittrici si rivarrano sui clienti, bien sur). Come si è arrivati a tanto? Spesso in Italia dietro una parola dal significativo positivo si cela un magma inafferrabile, un intero mondo ben diverso da quello propagandato. È il caso dell’espressione “banca del territorio”. Il sociologo Ilvo Diamanti ha spiegato molto bene come il concetto di territorio non deve essere visto come puro dato geografico, ma come ambiente antropologico: “Lo spazio sociale è fatto di relazioni, vincolate al territorio. Relazioni che vanno anche oltre il territorio, hai comunità il cui spazio non è territoriale; sono comunità professionali, religiose, culturali”. Per anni i peggiori banchieri italiani si sono trincerati dietro questa espressione per coprire i finanziamenti a “amici degli amici”, senza una seria analisi del merito di credito.

   

Mentre in pubblico, ai dibattiti, i banchieri locali diffondevano il verbo del sostegno all’economia del “territorio”, in realtà venivano finanziate operazioni immobiliari di dubbia qualità che spesso raggiungevano fino al 40 per cento degli impieghi totali della banca. Nelle Considerazioni finali sul 2013 il governatore Ignazio Visco scrisse: “Un’interpretazione fuorviante di questi rapporti [con il territorio di riferimento] può distorcere l’erogazione del credito, mettendo a rischio la solidità dei bilanci bancari e l’allocazione efficiente delle risorse”. Eravamo a poca distanza temporale dall’arresto di Giovanni Berneschi, dominus incontrastato di Banca Carige, che si inventò conti correnti intestati a personaggi di fantasia come Filadelfo Arcidiacono. Il governatore toccò un tasto dolente: i “debitori di riferimento”, coloro i quali siedono nel consiglio di amministrazione e, approfittando della posizione influente, si fanno finanziare dalla banca stessa. Invece di essere azionisti di riferimento (mettendoci soldi veri), diventano debitori di riferimento. Alcune banche hanno trasformato la bandiera della vocazione territoriale nella coperta del peggior capitalismo di relazione. Il banchiere Sergio Siglienti nel volume “Una privatizzazione molto privata” coniò l’espressione debitori di riferimento: “Quando una decisione è affidata (anche a livello di comitato esecutivo) a esponenti di imprese clienti della banca, essa può trovarsi a essere di fatto controllata dai suoi debitori”.

 

La Banca d’Italia ha sottolineato nel tempo i numerosi problemi di governance delle banche di piccola dimensione – che come “less significant institutions (Lsi) ricadono ancora sotto la sua diretta responsabilità:

(1) scarsa dialettica all’interno dei consigli di amministrazione pieni di “yes man, prony al president”. Nel caso di Carige, Berneschi ha fatto quello che ha voluto per decenni;

(2) endemici conflitti di interesse tra board, management e clienti. Non si contano le operazioni dove scarsa o nulla era la valutazione della capacità di merito di credito del prenditore;

(3) assenza di pianificazione strategica, che ha favorite ritardi nelle scelte industriali. Carmelo Barbagallo, responsabile della Vigilanza di Bankitalia nel 2015 scriveva che il management “non sempre mostra capacità di promuovere il coinvolgimento consapevole dei soci e di neutralizzare conflittualità e inopportuni campanilismi”.

  

Spesso si accusa la Banca d’Italia di non aver vigilato a dovere. Ma la responsabilità maggiore va agli azionisti che avrebbero dovuto per tempo intervenire e sostituire il management. Invece abbiamo assistito ad assemblee di approvazione del bilancio con voto bulgaro e per acclamazione. Non di meno, deve essere posto al vaglio di un attento discernimento l’operato della magistratura, la quale nel caso di Banca Carige ha ricevuto puntualmente dalla Banca d’Italia una relazione ispettiva durissima dove erano evidenziate le ipotesi di reato. Peccato che l’allora procuratore capo di Genova Francesco Lalla abbia nicchiato.