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Il tributo dell'Europa

Stefano Dorigo

I doveri, specie quelli fiscali, sono il marchio distintivo di una comunità solidale. E’ questa la prossima sfida

Circa 170 anni fa, Marx ed Engels osservavano – con espressione divenuta ormai celebre – che “uno spettro si aggira per l’Europa”. Oggi, sepolto il comunismo e le ideologie sue antagoniste, vi è un altro fantasma che pare inafferrabile e turba i sogni di molti governanti del vecchio continente (e non solo). Quello delle multinazionali digitali, che, grazie alle libertà fondamentali garantite dal diritto dell’Unione e all’assenza di armonizzazione fiscale in materia di imposte dirette, riescono a produrre utili elevatissimi con imposte del tutto inadeguate.

 

Così accade che Apple abbia potuto applicare ai propri redditi globali un’aliquota dello 0,005 per cento, risparmiando così 13 miliardi di euro – l’equivalente dell’ultima manovra finanziaria italiana – senza violare alcuna norma, grazie ad accordi con l’amministrazione fiscale irlandese capaci di modificare, per una singola impresa, il regime fiscale ordinario. E accade che Google, sempre attraverso l’Irlanda ma aggiungendovi un passaggio intermedio in Olanda, sia stata in grado di sottrarre a una giusta imposizione gli utili derivanti dalla propria attività commerciale svolta attraverso una presenza virtuale (tramite il sito internet) nei vari stati europei.

 

Garantire che i giganti del web paghino la giusta quota di imposte laddove gli utili si producono: ecco il vero problema dell’Unione europea

Queste contraddizioni, messe in luce dalla Commissione europea anche grazie a coraggiose inchieste giornalistiche internazionali, rendono evidente una situazione di competizione del tutto falsata. Ma non è questo (tanto) il punto. Il vero problema è l’incapacità dell’Unione europea di prendere iniziative per garantire che i giganti del web paghino la giusta quota di imposte laddove gli utili si producono. Il Consiglio Ue – nonostante le proposte formulate dalla Commissione nel marzo 2018 – non riesce a decidere, stretto dai veti degli stati in una materia, quella fiscale, nella quale ogni decisione ancora richiede l’unanimità. E così proliferano le iniziative unilaterali – pensiamo alla digital tax di recente introduzione in Italia e Francia – le quali però, in assenza di coordinamento, lasciano a chi ne vuole approfittare ampi margini di elusione. Intanto il dibattito resta ancorato a profili tecnici, senza che venga evocata l’ingiustizia che simili situazioni realizzano, sottraendo risorse per le politiche sociali statali ed europee, in uno spazio giuridico che dovrebbe essere invece improntato alla solidarietà ed al superamento delle disparità.

 

E’ davvero sorprendente tutto questo? Non si tratta piuttosto della manifestazione eclatante di una situazione che permea l’intera cultura europea, e che riguarda in qualche modo ciascuno di noi? Pensiamoci bene. Ogni giorno, cittadini e imprese si avvantaggiano delle libertà, dei beni e dei servizi resi fruibili dalla costruzione giuridica europea, senza rendersene conto e senza direttamente contribuire al loro costo. Nel 2017, un documento europeo sul futuro del bilancio comunitario enfatizzava il fatto che “per meno del prezzo di una tazzina di caffè al giorno” i cittadini europei avessero a disposizione politiche europee capaci di produrre effetti al di là dei confini del singolo stato. Lungi dal dovercene compiacere, sta forse proprio qui il problema di fondo. Tutti noi (non solo le multinazionali digitali) approfittiamo del benessere reso possibile dalle politiche europee, senza contribuirvi in modo diretto. Quell’euro al giorno corrispondente al nostro caffè mattutino non va direttamente alle istituzioni europee: è parte delle imposte che ciascuno paga al proprio stato di residenza. Imposte dal cui gettito poi i governi attingono le risorse per finanziare il bilancio Ue. Nessun cittadino europeo sa dunque quanto di suo raggiunge e finanzia gli interventi europei; e nessuno sa come le risorse vengono spese dall’Europa nel suo stato o altrove.

 

La fiscalità resta, insomma, l’emblema di un’Europa degli egoismi nazionali, delle cancellerie attente a dosare il trasferimento di risorse all’Unione per non farsi sfuggire di mano il controllo delle politiche più delicate in termini di consenso. Un’Europa ancora mera “espressione geografica” che non contempla alcun ruolo diretto dei cittadini, tenuti fuori dalle dinamiche del suo funzionamento proprio dal velo frapposto dai governi sul tema delle risorse finanziarie e del loro impiego. L’Europa, così, continua a passare sopra le teste dei suoi cittadini, colmi di diritti ma – in quanto privi di doveri (fiscali ma non solo) – incapaci di percepire il valore aggiunto europeo di cui godono quotidianamente. E non essendoci quei doveri, neppure ci sfiora il problema della solidarietà europea, che resta estranea alla nostra quotidianità per essere decisa, semmai, con il metro della condizionalità e delle fredde ed inflessibili regole dell’austerity, ancora una volta dai governi.

 

Un’imposta comunitaria spingerebbe a una declinazione “sovranazionale” dei concetti di welfare, appartenenza, condivisione

Non devono stupire, allora, i populismi e il senso di sfiducia nell’Europa che – stando ai sondaggi ed in attesa dei risultati elettorali del prossimo maggio – stanno prendendo piede in molti stati membri. L’Unione – così si dice – non risolve i problemi: non riesce a tassare i proventi delle multinazionali digitali e neppure a gestire l’immigrazione, ma chiede contributi agli stati senza dare nulla in cambio. E’ una questione di ignoranza, certo: ignoranza di ciò che si riceve quotidianamente dall’Unione e di ciò che ci mancherebbe laddove essa non vi fosse (e l’esperienza drammatica della Brexit sta lì a ricordarcelo come severo monito). Ma il problema non si può risolvere, come pure qualcuno sostiene, solo con una maggiore informazione.

 

Un paradosso, piuttosto impopolare, potrebbe indicare la via. Esso passa dal dotare l’Unione di una vera e propria imposta propria: un tributo, cioè, che sia deciso a livello dell’Unione, sia costruito in modo da colpire presupposti che manifestino posizioni di vantaggio collegate a beni, servizi o libertà rese fruibili dall’ordinamento europeo; ed il cui gettito serva per la realizzazione di funzioni di interesse comune a tutti gli stati membri.

 

Al di là delle singole soluzioni tecniche che potrebbero essere identificate (imposta sul reddito delle società, imposta sui redditi delle persone fisiche, imposte ambientali), mi pare che conti il risultato: l’imposta dell’Ue spingerebbe inevitabilmente a una declinazione “sovranazionale” dei concetti di welfare, di appartenenza a una comunità, di condivisione del rischio. Un’evoluzione in tal senso potrebbe aprire la strada anche a un mutamento dell’Unione, sia in termini istituzionali (verso una vera federazione?), sia nella percezione dei suoi cittadini. Il potere di imporre tributi rientra infatti da sempre nelle prerogative sovrane dello stato, e questa è, in effetti, la ragione per cui finora gli stati membri hanno voluto tenere saldo il controllo della materia delle imposte dirette. Tuttavia, laddove il tributo è di solito percepito negli ordinamenti nazionali come un elemento di negatività, nel contesto europeo esso potrebbe agire da motore di una maggiore integrazione e quindi come strumento di coesione sociale e quindi di equità orizzontale. Il tributo colpisce chi è parte di una certa comunità ed è volto a finanziare le attività e i servizi che i suoi organi di governo aspirano a fornire ai consociati. Un’imposta istituita dall’Unione e destinata a finanziarne le funzioni di interesse generale potrebbe quindi dare avvio ad un processo virtuoso, centrato sull’identificazione di un “interesse pubblico europeo”, nel quale i contribuenti, proprio perché chiamati a finanziare direttamente servizi di cui fruiscono o possono fruire, sono in grado di valutarne la qualità e di sviluppare un senso civico europeo, secondo la formula – adattabile al contesto sovranazionale – “pago, vedo, voto”.

 

In un momento storico di perdurante crisi globale e di evidente affanno delle istituzioni europee, la previsione di un tributo “proprio” dell’Unione – auspicabilmente costruito a saldi invariati, quindi senza aumento della pressione fiscale complessiva all’interno dei vari stati membri, per non alimentare ulteriormente le spinte populiste – contribuirebbe a ridare slancio alla costruzione dell’Unione ripartendo dalle sue fondamenta, ovvero dai cittadini, dalle imprese e da tutti quegli operatori nazionali che si muovono nello spazio – geografico ma insieme giuridico – creato dai Trattati.

 

Fatta l’Europa, ora bisogna fare gli europei. E per questo occorrono i doveri, specie quelli fiscali, che sono il vero marchio distintivo di una comunità solidale.

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