Virginia Raggi al consiglio capitolino (Foto LaPresse)

I debiti di Roma li pagherà Roma

Rocco Todero

Così Salvini asfalta Raggi e il M5s nel decreto crescita

Roma. Annunciato da un comunicato stampa della presidenza del Consiglio dei ministri il 5 aprile scorso, il decreto crescita ha visto la luce in Gazzetta ufficiale solo 26 giorni dopo, nonostante la Costituzione e la legge n. 400/1988 dispongano che l’atto avente forza di legge adottato dal governo debba contenere misure d’immediata applicazione e necessiti di tempestiva pubblicazione, senza ulteriori adempimenti. La lettura del provvedimento, che adesso deve passare all’esame d’entrambe le Camere per la necessaria conversione, consente di svelare come il vincitore del braccio di ferro inscenato nelle scorse settimane sulla questione dell’accollo in capo allo stato dei debiti della gestione straordinaria di Roma Capitale, sia risultato, in definitiva, il leader della Lega Matteo Salvini.

  

 

A quanto pare non è servita la spiegazione che il sindaco di Roma ha offerto al ministro dell’Interno a mezzo di stringatissimo video diffuso tramite i social, nel corso del quale, spezzando alcune molliche di pane, Virginia Raggi ha tentato di convincere l’interlocutore che il provvedimento originariamente predisposto, con la collaborazione del sottosegretario Castelli, avrebbe persino ridotto i debiti che lo stato paga da parecchi anni per estinguere i debiti della capitale. E a nulla sembrano essere approdati i tentativi d’estendere una qualche legislazione finanziaria di favore a vantaggio di altri enti locali in situazione di dissesto o di grave deficit economico, per fare digerire al ministro leghista l’estensione della compartecipazione statale a vantaggio di Roma Capitale.

 

Il Consiglio dei ministri, infatti, quello svoltosi senza l’iniziale presenza dell’altro vice presidente del Consiglio, Luigi Di Maio, impegnato nella registrazione di un talk show televisivo, ha esitato un provvedimento che non affronta alcuna delle questioni cruciali relative alla disastrosa situazione finanziaria di Roma e degli entri enti locali deficitari. Al contrario, la disposizione del decreto legge dedicata ai debiti degli enti locali appare priva di qualsiasi reale contenuto innovativo ed è stata adottata in assenza della fattispecie di straordinaria necessità ed urgenza richiesta dall’articolo 77 della Costituzione per legittimare l’eccezionale intervento legislativo del governo.

  

 

L’articolo 38 del decreto legge n. 34/2019 sembra essere molto meno del famoso topolino partorito dalla montagna, poiché non prevede alcunché in ordine alla eventuale accollo dei debiti della gestione straordinaria di Roma Capitale in capo all’amministrazione ordinaria della città, né con riguardo all’eventuale ulteriore impegno economico dello stato. La disposizione in questione si limita, invece, a prevedere come in seguito alla conclusione delle attività straordinarie delle gestione commissariale, conclusione rimessa ad un decreto del presidente del Consiglio dei ministri d’approvazione dell’accertamento definitivo del debito pregresso del comune di Roma, sarà l’amministrazione ordinaria della capitale a dovere gestire la liquidazione dei debiti e la riscossione dei crediti ancora pendenti e relativi ad obbligazioni giuridiche contratte prima del 28 aprile 2008.

 

La provvista per far fronte ai debiti ancora pendenti, tuttavia, rimarrà, per espressa previsione del decreto crescita, quella già indicata dal comma 14 dell’articolo 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, vale a dire la complessiva somma di 500 milioni di euro l’anno, di cui 300 milioni erogati dal ministero dell’economia e delle finanze e 200 milioni recuperati grazie all’addizionale commissariale sui diritti d’imbarco dei passeggeri sugli aeromobili in partenza dagli aeroporti della città̀ di Roma e all’incremento dell’addizionale comunale Irpef dello 0,4 per cento.

 

Se è vero, pertanto, che lo stato non ha incrementato il proprio impegno finanziario per liquidare la montagna di debiti pendenti in capo a Roma Capitale, è altrettanto evidente che il contribuente italiano non potrà trarre alcun beneficio dallo sforzo che l’esecutivo pentastellato ha profuso con l’adozione del decreto crescita, considerato che l’impegno economico dello stato non risulta in alcun modo diminuito. La chiara presa di posizione di ministro Salvini, poi, potrebbe avere prodotto anche una non trascurabile beffa in capo all’amministrazione guidata da Virginia Raggi, atteso che alla lettera d) dell’articolo 38 del richiamato decreto v’è scritto che le posizioni debitorie derivanti da obbligazioni contratte in data anteriore al 28 aprile 2008 non inserite nella definitiva rilevazione della massa passiva rientrano nella competenza di Roma.

 

Quest’ultima norma sembrerebbe accollare alla gestione ordinaria i debiti risalenti al periodo di competenza della gestione commissariale che, tuttavia, non sono stati rilevati sino a questo momento e che, pertanto, non potranno essere liquidati per mezzo del contributo statale di 300 milioni di euro annui. Della ventilata possibilità che fosse consentita la rinegoziazione dei mutui al fine di alleviare il pagamento annuale delle relative rate e di scongiurare la paventata crisi di liquidità cui la gestione commissariale potrebbe andare incontro nei prossimi mesi, nessuna traccia.

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