Foto LaPresse

Le aziende che possono fare tornare a sorridere l'Italia

Ugo Bertone

Da Brembo a Illy passando per Ferrero. Alcuni motivi per ritrovare fiducia

Milano. Care aziende italiane, state alla larga dagli hedge fund. Jeffrey Sachs, economista e profeta dello sviluppo sostenibile, l’ha detto e ripetuto nell’ultima trasferta italiana. Un’occasione per illustrare il rapporto sulla felicità che cura dal 2012 e che, grande sorpresa, una volta tanto, contiene una piccola promozione (dalla posizione 47 alla 36) per il Bel Paese, abituati a fare collezione di allarmi.

  

“Le vostre aziende famigliari – dice Sachs – non devono finire nelle mani di gente che quasi sicuramente le gestiranno malissimo perché l’unica cosa a cui tengono e generar profitti”. Sagge parole ma che spesso sono cadute nel vuoto, complici le difficoltà del capitalismo italiano a gestire i passaggi generazionali, alimentando la retorica del piccolo è bello che, per fortuna, sembra passato di moda. Quasi a sorpresa, in un paese in bilico tra stagnazione e recessione, i campioni del quarto capitalismo stanno ribaltando la tendenza. E se c’è una ragione per cui la produzione industriale in questo inizio d’anno, dopo tracolli nella fine del precedente, è ricominciata a crescere un poco deriva dalla resistenza delle aziende private nonostante provvedimenti deleteri per l’attrazione di investimenti esteri e il dispiegamento di investimenti italiani da parte del governo gialloverde.

   

La parola d’ordine è crescere, vuoi con acquisizioni vuoi con alleanze e, se del caso, scambi di azioni che non solo l’anticamera dell’uscita, semmai il contrario. E’ lo spirito con cui domani Alberto Bombassei, il re del freno made in Italy di Brembo, si presenterà ai soci in assemblea per chiedere l’introduzione del voto maggiorato: le azioni detenute per almeno 24 mesi avranno diritto al voto doppio. Un’occasione per cedere i titoli in sovrappiù, come già si era sospettato per una scelta analoga in casa Agnelli? No, la famiglia Bombassei si è data la missione di raddoppiare la taglia del gruppo, allargando per giunta la sfera d’azione dai sistemi frenanti agli altri mestieri imposti dall’ingresso dell’auto nell’era digitale. Anche se questo dovesse comportare, come è probabile, una gestione condivisa con altri soci. Un destino che, probabilmente, riguarderà anche Fiat Chrysler. A nessun livello, del resto, vale ancora il detto “piccolo è bello”.

      

Ad aprire la strada, a modo suo, è stato il patriarca Leonardo Del Vecchio. Era quasi scontato, agli occhi degli analisti, che l’alleanza con Essilor fosse una sorta di cessione mascherata al gruppo francese. Ma, per ora, l’ex martinitt non dà affatto l’idea di volere uscire di scena dopo essersi assicurato una leadership mondiale.

   

Non meno ardita, forse più coraggiosa, la missione di Ferrero che ha messo a segno due colpi miliardari negli Stati Uniti, rilevando marchi ceduti da due colossi, Nestlé e Kellogg, in uscita dai biscotti made in Usa. Un cambio di rotta storico: pochi avrebbero immaginato che Giovanni, romanziere per vocazione, sarebbe uscito dal recinto della Nutella per sfidare, affiancato nella gestione da un manager esterno alla famiglia, i mari della concorrenza. Ma, sotto la pressione dell’economia globale, i margini di manovra sono sempre più ridotti: o si sale di categoria oppure ci si condanna, quando va bene, a finire nell’orbita di qualche colosso più ricco e meglio strutturato per affrontare la sfida globale.

   

Ma a favore del made in Italy giocano le virtù, spesso sottovalutate, dei nostri imprenditori, spesso capaci di sintonizzarsi con il nuovo che avanza, come dimostra la collaborazione di Lavazza e di Esselunga in Plug&Play, una piattaforma di Silicon Valley scelta per sviluppare packaging innovativi tanto da portare il caffè nello spazio. O la marcia di Campari, destinata secondo Goldman Sachs a fare sfracelli negli Stati Uniti. O le decine di sigle del design che hanno coperto le vie di Milano che un tempo era da bere, oggi è lo specchio dell’Italia Felix così come la racconta Andrea Illy, esponente della dinastia triestina del caffè che ha dedicato un libro per spiegare “perché il nostro paese può tornare a crescere e gli italiani a sorridere”. Un invito all’ottimismo che suona controcorrente su molti temi, dall’immigrazione (“l’Italia è in mezzo al mediterraneo, non sui fiordi. Non ne verremo mai a capo se non accettiamo questo dato”) al fisco (“la fiscalità è troppo alta ma il paese, incastrato dal debito pubblico, non può ridurre le tasse indiscriminatamente”. Con una nota di fiducia ragionata. “Sì, ce la faremo – dice ancora – Ma per costruire insieme un’Italia felix non bisogna essere fatalisti, ma realisti: accettiamo i nostri limiti ma con la passione per cambiare in meglio”.