Foto tratta dalla pagina Facebook di Herman Cain

Vita, successi e guai di Cain, l'uomo di Trump per la “sua” Fed

Ugo Bertone

Figlio di domestici ha risollevato ristoranti con modi spicci in stile trumpiano. Ma non è banchiere e non piace ai repubblicani

Milano. “Herman è un grand’uomo”, sillaba davanti alle telecamere Donald Trump, prima di lasciare la stanza ovale per la raccolta fondi in Texas per la campagna elettorale. Parlava di Herman Cain, la prima scelta del presidente per completare la squadra della Federal Reserve così come piace a lui. “Herman sta facendo un lavoro magnifico. E’ il mio preferito. Ora dipende da lui”.Una frase maliziosa che nasconde più di un’insidia.

 

Il fedelissimo Herman Cain ha uno scheletro dell’armadio che rischia di complicare la campagna di Trump per “normalizzare” i vertici della Banca centrale che si oppongono alla politica del presidente. Cain, il primo presidente di colore della Federal Bank di Kansas City, ha dovuto rinunciare a una brillante carriera politica perché accusato da due cameriere, già sue dipendenti, di molestie sessuali, per episodi che risalgono agli anni 90. All’epoca Cain dirigeva con grande successo la “Godfathers Pizza”, la “Pizza del Padrino”, (una grande catena di fast food da lui rimessa in sesto con il taglio di 200 punti ristoro e migliaia di dipendenti). Herman si è sempre proclamato innocente, ma la macchia del sexual harassment ha oscurato un curriculum impeccabile, perfino troppo per sembrare vero: origini molto modeste, figlio di una cameriera e di un maggiordomo che prestava servizio a Memphis, naturalmente presso una famiglia di bianchi di nobili origini. L’ascesa sociale, come in un film di Hollywood, è stata resa possibile dal servizio prestato in Marina. Dopo il congedo, il nostro Herman è stato arruolato da Burger King, dove ha iniziato una brillante carriera da manager fino a essere scelto come presidente della American Association of Restaurant, dove ha dato il meglio di sé. Almeno agli occhi di Trump: si è battuto contro il divieto di fumo nei locali, così come contro i limiti imposti alla vendita di alcolici. Insomma, diceva no a qualsiasi vincolo che possa limitare il business, la filosofia che ispira anche la sua ricetta di politica fiscale, ispirata alla regola del “tre volte nove”. Ovvero, una sola aliquota, per l’appunto al 9 per cento, sui redditi di ogni contribuente, così come sui profitti delle corporation e su ogni bene di consumo, dai diamanti al latte in polvere.

 

“E’ il mio uomo”, ripete Trump conquistato dal carattere battagliero di questo guerriero cresciuto dal nulla, assai attivo nel sostegno a tutte le crociate di Trump, dall’immigrazione alla lotta contro l’aborto. Peccato per quella macchia, subito inquadrata dai nemici peggiori del presidente: i repubblicani.

 

Ad alzare il tiro per primo è stato Mitt Romney, il candidato del Grand Old Party nel 2012: “Se Trump insisterà, sarò costretto a votare contro in Senato”. E il presidente, vecchia volpe, sta probabilmente preparando un’alternativa meno indigesta al suo partito e, ben più importante, alle élite di Wall Street che guardano con grande preoccupazione all’affondo di Trump contro l’indipendenza della Federal Reserve. Oltre alla nomina di Cain, infatti, il Senato dovrà pronunciarsi su un’altra scelta del presidente, quella del pasdaran Stephen Moore, già responsabile della raccolta fondi di Trump nelle presidenziali del 2016. Uno che non ha alle spalle alcuna credenziale per aspirare a sedere nel board della Banca centrale, finora riservato a economisti di prestigio o a banchieri con una grande esperienza operativa, in grado di garantire l’indipendenza dell’istituto, sia in materia di vigilanza sul sistema bancario che sulla dinamica dei tassi. Anche a costo di mettere a rischio la corsa di Wall Street e, di riflesso, la rielezione dello stesso Trump che ha accusato il numero uno della banca, Jerome Powell (“il mio errore più grave”), di tramare con il rialzo dei tassi (già finito del resto) “per mettermi nelle condizioni di Hoover”, il presidente travolto dal crack del 1929. Poco conta, perciò, che Cain rinunci o meno. L’identikit di Trump per la Fed è chiaro: ai tempi del populismo ci vuole un Rambo, mica Milton Friedman.

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