Il colosso cinese Cosco Shipping, controllato dal governo, oggi ha in mano i due terzi del porto del Pireo (foto Reuters)

Le stelle cinesi d'Europa

Stefano Cingolani

Pirelli, Peugeot, Volvo, il porto del Pireo. Cosa è successo là dove è entrato il Dragone. Che ha mostrato grande potenza di fuoco, ma per ora s’è mosso con passi felpati. Appunti sulla nuova Via della Seta

Che cosa hanno in comune la Pirelli, la Peugeot, la Volvo e il Pireo? Sono quattro stelle del firmamento economico, sociale, persino politico europeo. E su tutte splende la stella gialla della Cina. Non sono le uniche, negli ultimi dieci anni imprese cinesi hanno comprato in tutto o in parte 360 aziende europee, dal Regno Unito alla Romania, per oltre 318 miliardi di dollari; ma le abbiamo scelte perché sono vere icone, punti cardinali di un ideale quadrilatero che unisce il Vecchio Continente. Come è nato il loro rapporto con Pechino? Sono state aiutate o no dal capitalismo rosso? Ne hanno tratto vantaggio, è cambiato il loro modo di lavorare, chi siede davvero in plancia di comando? Cominciamo dalla Pirelli e non solo in nome della italianità.

 

Si chiama Ning Gaoning, ma sul biglietto da visita c’è scritto Frank G. Ning. Ha 60 anni, parla bene l’inglese con inflessione

ChemChina, il cui azionista è lo stato, nel 2015 ha speso 7 miliardi di euro per diventare primo azionista del gruppo italiano degli pneumatici

americana acquisita durante gli studi alla Business school di Pittsburgh ed è l’attuale presidente della Pirelli. Ha rimpiazzato l’estate scorsa Ren Jianxin, l’ex funzionario pubblico che ha trasformato ChemChina, il cui azionista è lo stato, in un colosso internazionale. Nel 2015 ha speso poco più di 7 miliardi di euro per diventare primo azionista del gruppo italiano degli pneumatici, ma il suo grande azzardo non è stato in Italia, bensì in Svizzera: due anni fa ha acquistato la Syngenta, multinazionale dei fertilizzanti, per 43 miliardi di euro. Un bel boccone da digerire, che infatti è rimasto indigesto.

 

Stando al prospetto del 2016, ChemChina mostra la debolezza intrinseca a questi colossi pubblici cinesi, scrive una indagine della Commissione europea: bassi profitti e alti debiti che si tengono in piedi grazie alle garanzie dello stato. Il loro destino, così, sembra quello di crescere sempre, allargando il ventre come otri. Ren cominciò nel 1984 con una piccola fabbrica di solventi chiamata Bluestar e poco a poco prese il controllo di cento aziende in crisi possedute dallo stato, in varie zone del paese. Nel 2004, il ministero dell’Industria chimica decise di fondere questo conglomerato creando un vero gruppo chiamato China National Chemical Corporation. Un pesce grosso, che è finito, però, in pancia a uno ancor più grosso: Sinochem, filiazione della vecchia compagnia di import-export di fertilizzanti e prodotti chimici nata nel 1950. In Borsa dal 2003, tratta anche petrolio greggio e prodotti derivati. Il nuovo mastodonte industriale ha un fatturato da cento miliardi e una gran potenza di fuoco, ma 43 miliardi sono comunque tanti, così si è diffusa la voce che debba alleggerirsi vendendo alcune delle proprie partecipazioni, compresa una quota di Pirelli. Sono solo “speculazioni”, questa la posizione ufficiale. In ogni caso, l’azienda italiana è un fiore all’occhiello per i cinesi. Soprattutto, sembra intoccabile il blindatissimo patto firmato nel 2015: “Abbiamo stabilito regole del gioco corrette e lo statuto garantisce l’Italia, ci vorrebbe il 90 per cento dei voti per cambiarlo. Pirelli resta la più italiana delle società italiane, anche dopo l’accordo con un’azienda di Stato di Pechino, perché lo Stato se segue le regole di mercato non è un male”, ha dichiarato Marco Tronchetti Provera, vicepresidente e amministratore delegato.

 

Frank G. Ning ha assicurato che tutto continuerà come prima e se lo dice lui c’è da prenderlo sul serio: non è solo presidente della casa madre, ma anche segretario della sezione del Partito comunista, dunque, ha davvero i pieni poteri, anche quelli politici. Gli accordi prevedono che Tronchetti rimanga al suo posto fino all’assemblea del maggio 2020 e che abbia la facoltà di scegliere il proprio successore. Dunque tra poco più di un anno ci sarà un cambio al vertice, ma nel quartier generale della Bicocca si mostrano tranquilli. La governance è incentrata sulla tutela dell’italianità e del know how tecnologico, oltre che sulla continuità del management; il consiglio di amministrazione è formato da 15 membri, otto dei quali sono indipendenti. Oggi i cinesi hanno il 45,5 per cento del capitale. La parte restante è nelle mani dei soci italiani (Marco Tronchetti Provera in testa attraverso Camfin) con il 10,05 per cento, i russi di Rosneft con il 6,24 per cento, il resto fluttua sul mercato.

 

Facciamo un passo indietro al 2015. A quei tempi Tronchetti era reduce da una serie di avvicendamenti nella catena di controllo. Ai soci storici che lo affiancavano, come Mediobanca, i Benetton, Salvatore Ligresti e l’amico Massimo Moratti, si era

“Abbiamo stabilito regole del gioco corrette e lo statuto garantisce l’Italia, ci vorrebbe il 90 per cento dei voti per cambiarlo”, dice Tronchetti

aggiunto nel 2010 l’imprenditore Vittorio Malacalza, con cui due anni dopo si apre un conflitto sulla gestione finanziaria e di fatto sugli equilibri interni a Camfin. Nel 2013 è stato sciolto il patto di sindacato e Mediobanca, Generali, Intesa e Unipol (erede delle quote di Ligresti) hanno ridotto le loro partecipazioni. Nel 2014 sono entrati investitori russi guidati dal colosso petrolifero Rosneft che però, colpito dalle sanzioni per l’invasione della Crimea da parte di Vladimir Putin, si è trovato a corto di liquidità. Il 22 marzo 2015 il colpo di scena: i cinesi di ChemChina rilevano il controllo, poi, con una nuova struttura societaria chiamata Marco Polo che raccoglie Tronchetti, le banche Unicredit e Intesa che lo finanziano, alcuni amici e i russi, lanciano un’offerta pubblica sulla totalità delle azioni. Ren Jianxin ottiene la maggioranza, ma gran parte delle risorse necessarie per rilevare le quote di minoranza, pari a 4,2 miliardi di euro, viene da nuovi debiti fatti dalla società che lancia materialmente l’offerta.

 

Il passaggio successivo è di natura industriale: la Pirelli si concentra sugli pneumatici per automobili, in particolare di alta gamma, mentre quelli per camion e macchine agricole vengono passati a una nuova società chiamata Pirelli Industrial che prenderà poi il nome di Prometeon, sotto il controllo di ChemChina e con la partecipazione di un fondo basato a Hong Kong, ma che fa capo a una controllata del governo di Pechino, la China Cinda. La Pirelli, alleggerita e focalizzata sul settore che produce margini più elevati, torna in Borsa il 4 ottobre 2017. La quotazione semplifica anche l’assetto proprietario.

 

Ma quali sono stati i risultati economici di queste complesse metamorfosi? Nel 2018 la Pirelli ha realizzato ricavi per 5,2 miliardi di euro cresciuti del 3,7 per cento, mentre il segmento ad alto valore ha generalo 3 miliardi di euro con un aumento del 10 per cento. Se consideriamo la redditività, vediamo che l’83 per cento del margine operativo viene proprio da qui. L’azienda ha prodotto un utile di 442 milioni di euro con un aumento addirittura del 152 per cento. Alla Bicocca sono particolarmente orgogliosi degli elevati investimenti in ricerca e sviluppo (218 milioni pari al 4,2 per cento delle vendite, una quota molto alta) e dell’elevato indice di sostenibilità ambientale che mette l’azienda in cima alle classifiche internazionali. Ma il mestiere di chi produce pneumatici è particolarmente difficile e il mercato è dominato da veri colossi. In testa i giapponesi di Bridgestone con un fatturato di 22 miliardi di euro, incalzati dai francesi della Michelin che puntano al sorpasso quest’anno, segue l’americana Goodyear (12,8 miliardi), la tedesca Continental (11 miliardi) che Leopoldo Pirelli tentò inutilmente di scalare, poi a grande distanza, Pirelli e Sumitomo. Il grande gioco in questo settore si svolge in occidente, con la Cina mercato di sbocco. Esattamente come avviene nell’auto.

 

La Peugeot è forse quella che da più tempo ha scommesso sulla Cina, fin da quando nel 1984 ha stretto i primi rapporti con il gruppo Dongfeng che allora si chiamava Second Automobile Works, produceva soprattutto autocarri ed era controllato direttamente dal governo guidato da Zhao Ziyang. Il primo passo avviene in realtà con il marchio Citroën per sfidare la Volkswagen che, con il modello Santana, spopolava nella Cina della prima modernizzazione. L’anno successivo arrivano anche le Peugeot vere e proprie, che non incontrano il favore del mercato. Nel 1992 resta in piedi solo la joint-venture tra Citroën e Dongfeng chiamata Shenlong Automobile. Nonostante i buoni propositi e il pomposo nome, le cose non vanno per il meglio, sul mercato cinese ci sono solo due modelli prima dell’arrivo nel 2006 della Peugeot 206, e le quote sono troppo piccole oltre che in continua discesa. La grande promessa di aprire il mercato che cresce più al mondo si rivela una grande illusione. Finché non arriva la grande crisi. Sì, paradossalmente, sarà proprio la recessione del 2008 ad aprire una nuova finestra.

 

Peugeot è l’azienda che da più tempo ha scommesso sulla Cina. Ora rispunta Fca: la nuova guerra di mercato si combatte in occidente

Il gruppo francese, ancora controllato dalla famiglia Peugeot, respinge sdegnosamente le avance di Sergio Marchionne che, dopo la Chrysler, vorrebbe la Opel, ma viene bloccato dal sistema tedesco (governo, management, banche, sindacati, tutti contro). Per un po’ la Gm se la tiene, poi la passa, guarda un po’, proprio alla Peugeot della quale acquisisce il 7 per cento. Non basta e nel 2014 la Gm se ne va e la Dongfeng prende il 14 per cento. Il tricolore viene ammainato per far posto alla bandiera rosso-stellata? Fermi tutti, l’orgoglio francese non lo consente e chiede aiuto allo stato. Si crea così un equilibrio paritario tra la famiglia, i cinesi e il governo, tutti con la stessa quota del 14 per cento. Una scelta che divide in due la stessa dinastia Peugeot. Il rischio del collasso è scongiurato, ma si era illuso chi sperava che la Cina fosse Shan-gri-la e che lo stato avesse un ombrello senza limiti. Il mercato dell’auto ha avuto un boom dopo la crisi, però sta rallentando in America, in Europa e ora persino in Asia. mentre s’avvicina una nuova ondata tecnologica all’insegna dei motori ibridi o elettrici. Il diesel, punto di forza storico della Peugeot, non ha futuro. Ma per investire nei nuovi modelli occorre una quantità immensa di capitali e un forte amore per il rischio. Rispunta così la Fca: ne parla persino Robert Peugeot, l’erede della famiglia. Vedremo se l’ipotesi prenderà corpo, ma una cosa è certa: la nuova guerra di mercato si combatte in occidente. Lo dimostra anche l’altra icona dell’auto europea che batte bandiera cinese: la Volvo.

 

Nella roccaforte dell’auto svedese, la Cina è entrata non con un’azienda di stato, ma con un miliardario, ingegnere e poeta dilettante. Il suo nome è Li Shufu, tanto innamorato dei black cab, i famosi taxi inglesi, da comprarsi la fabbrica che li produce, la Manganese Bronze di Coventry. A soli 23 anni, nel 1986, Li fonda la Geely Automobile che oggi è il secondo produttore privato cinese con 1,9 milioni di vetture vendute (Volvo non arriva a 600 mila). Nel 2010 stacca un assegno da 1,8 miliardi di dollari per subentrare alla Ford, alla fine del 2017 diventa il primo azionista privato seguito da Industrivärden, il fondo di investimenti che fa capo alla banca Handelsbanken. “La Volvo per me era come una bella donna alta e bionda”, dice Li Shufu, un oggetto del desiderio che diventa realtà nel 2010, due anni prima dei taxi neri londinesi. “Vi assicuro che la Volvo tornerà ai tempi gloriosi, com’è sicuro che la tigre tornerà sulle sue montagne”, promette rimeggiando, intanto mette in piedi progetti come Lynk & Co. che s’allontanano dal marchio storico. L’auto dello svedese medio era arrivata al capolinea già nel 1999 quando era stata acquisita dalla Ford, ma con l’arrivo della grande crisi il gruppo americano decide di non ricorrere ad aiuti di stato, quindi è costretto a tagliare i rami secchi o quelli che non guadagnano abbastanza, come appunto la Volvo. Come alla Peugeot, gli americani fuggono, arrivano i cinesi. Li Shufu si impegna a mantenere gli impianti a Göteborg e il management strettamente svedese, tuttavia non esita a sottolineare che lo stile scandinavo è troppo sobrio per i nuovi ricchi cinesi. Per il consumatore ci sono già i modelli della Geely. In Svezia sono soddisfatti dell’accordo, l’azienda è tornata a fare profitti, gli altri azionisti incassano buoni dividendi. Del resto, cos’altro c’era all’orizzonte se non un destino come quello della gloriosa Saab, cioè la chiusura? Lo stesso dilemma nel quale si era trovato il porto del Pireo.

 

Quando il 12 gennaio del 2016 il governo greco aprì la busta delle offerte per la privatizzazione dello scalo ateniese, si scoprì che c’era un solo candidato: la Cosco Shipping, colosso cinese dei trasporti via mare, controllato dal governo. In realtà, la Cosco era già una vecchia conoscenza. Aveva ottenuto nel 2009 la gestione di un molo e l’anno successivo aveva pagato mezzo miliardo di euro per cogestire l’intera attività. Adesso ha in mano i due terzi, e può decidere da

Nel 2018 sono cresciuti per Pirelli gli utili e i ricavi. Elevati gli investimenti in ricerca e sviluppo. Ma il mercato è dominato da colossi

sola. Nel 2017 ha firmato un accordo con l’autorità di Shanghai e il Pireo è diventato il principale scalo nel Mediterraneo per la nuova Via della Seta. Il giro d’affari è triplicato, i ritmi di lavoro sono aumentati in proporzione, tra le inutili proteste dei sindacati. Sono stati ampliati i moli attrezzati anche per le grandi navi porta container e anche per i vascelli militari. Perché nel luglio 2017 la fregata Jingzhou, il cacciatorpediniere Changchun, e l’unità navale di rifornimento Chaohu, hanno gettato gli ormeggi nel maggiore porto della Grecia per una visita di quattro giorni con l’obiettivo di dimostrare l’alto grado di collaborazione fra la Grecia e la Cina. E tuttavia le grandi aspettative rischiano di essere frustrate dalla carenza dei collegamenti terrestri. Le merci cinesi sbarcano nel Pireo e poi cominciano un lungo, lento e pericoloso viaggio attraverso i Balcani, niente treni veloci né autostrade, non ancora: c’è un progetto per una linea ferroviaria che passi per la Macedonia, la Serbia e l’Ungheria, ma è di là da venire. Ecco perché è cresciuto l’interesse per i porti italiani, soprattutto Trieste, chiave della Mitteleuropa.

 

Il nostro lungo giro ci riporta in questa Italia che vuol fare da apripista al grande progetto euro-asiatico. La storia delle quattro imprese europee ci dice che Pechino finora ha mostrato grande potenza di fuoco, ma s’è mossa a passi felpati. Non toccare la governance e la gestione delle imprese è un imperativo categorico. Pirelli è andata più avanti degli altri e ha creato un suo modello, ma forse non è ripetibile ovunque. E che cosa succede se il gioco si fa più duro, se in Europa entrano in campo i governi, come è già avvenuto negli Stati Uniti? Anche Pirelli, Peugeot, Volvo, il Pireo, in tal caso dovranno piazzare i cavalli di frisia? O la “sana competizione” diventerà un conflitto a tutto campo?