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L'importanza dei porti

Giancarlo Salemi

Rispetto alla Cina siamo topolini, e trattare senza Europa è rischioso. Parlano Confetra e FerCargo

Roma. “Stiamo attenti per favore a non cedere i nostri porti, i nostri asset strategici alla Cina perché non ci sono solo le merci ma molto altro, non lasciamo a Pechino la progettazione e la realizzazione delle nostre opere”. Nereo Marcucci è un toscano verace e parla al Foglio come numero uno di Confetra, la Confederazione della logistica che raggruppa 60 mila aziende, impiega 500 mila addetti e ogni anno contribuisce alla crescita del pil nell’ordine dell’8 per cento con oltre 130 miliardi di euro. “‘Anda e rianda’, noi a Livorno diciamo così, le merci devono arrivare ma devono anche partire, ci vuole equilibrio, parità, cosa che a oggi non c’è proprio”, dice Marcucci.

    

“Cedere ai cinesi il nostro know how, come quello della progettazione che noi italiani siamo molto bravi a realizzare, o favorirli in un settore come quello delle costruzioni dove annoveriamo dei campioni nazionali, non mi sembra una mossa intelligente”, spiega. Altra cosa sono i traffici delle merci che invece sono i benvenuti, anche perché così può crescere l’intero comparto della logistica ma con una richiesta esplicita, appunto: maggiore reciprocità. “Quel nastro trasportatore marittimo che parte dal Far East e arriva in Europa deve viaggiare nei due sensi di marcia. Il nostro export verso Pechino deve necessariamente aumentare”. Sono i dati di Sace Simest a ricordarcelo: nel 2018 abbiamo esportato verso la Cina merci per 13 miliardi di euro ma importiamo per 30 miliardi, la nostra bilancia commerciale è in perenne disavanzo e anche la nostra quota in Cina è appena dell’1 per cento nonostante i molti programmi di penetrazione commerciale.

     

“La Via della Seta vista da un finestrino del treno”, dice al Foglio Giancarlo Laguzzi, presidente di FerCargo, l’associazione che riunisce tutto il comparto treno privato e pubblico tranne Fs, “ci ricorda tutti i ritardi del nostro sistema e la mancanza di una visione. Noi ci abbiamo provato a Mortara a fare partire treni carichi di merci verso oriente, ma non è andata bene: c’era tanto import ma poco export e con i treni vuoti non si va da nessuna parte, le merci vanno dove ci sono volumi, aggregazione”. Che cosa vuol dire? “Che senza tutta la confusione a cui assistiamo da settimane sulla Tav, i tedeschi si sono presi il terminale della Via della Seta a Duisburg e noi invochiamo le merci via mare per Genova e Trieste. Ma se poi mancano i corridoi e i collegamenti dove vanno queste merci?”. Insomma per “i camionisti con le ruote di ferro”, come si definiscono le 17 società di FerCargo, il problema non è solo quello di non svendere le infrastrutture ai cinesi ma quello di farle, altrimenti “finirà che il corridoio Lisbona-Kiev”, prosegue Laguzzi, “ritornerà al progetto originario, la Svizzera si sta già attrezzando ho costruito la galleria del Gottardo, cinquanta chilometri, la più lunga d’Europa, e tra un anno dirà: venite. E noi andremo da loro e a perderci sarà la nostra logistica”.

    

“La verità è che all’Italia serve l’Europa”, dice Marcucci di Confetra, “siamo dei topolini rispetto alla Cina, l’accordo sulla Via della Seta sarebbe stato meglio definirlo in un contesto europeo e anche sui porti ricordo che le autorità sono organi di regolazione, quindi attenzione a non creare società con capitali cinesi”. Il riferimento è a quanto ha detto qualche giorno fa il presidente dell’Autorità Portuale di Genova e Savona, Paolo Signorini, ovvero che si sta lavorando “per costruire una nuova società in partnership con il gruppo cinese China Communication Construction Company (Cccc) che ci aiuterà nelle fasi di appalto di alcune grandi opere relative al porto di Genova”. Non è un caso quindi che nella delegazione che accompagnerà il presidente Xi ci saranno, tra gli altri, anche Wang Jingchun, presidente esecutivo di Cccc e il suo direttore generale Changmiao Zha. Per capire le dimensioni del colosso cinese basta pensare a una matrioska: la Cccc ha ben 34 società controllate, tutte ovviamente statali, con le quali è impegnata globalmente in attività di progettazione e costruzione di infrastrutture di trasporto, dragaggio e fornitura di gru. Basta guardare come si è mossa in questi ultimi anni, soprattutto in Africa dove ha costruito porti, ponti, tunnel sottomarini, nuove città, isole artificiali e ferrovie.

   

Il gruppo cinese piglia tutto

Nato nel 2005 dalla fusione di China Harbour Engineering Company (Chec) e China Road and Bridge Corporation (Crbc), il gruppo Cccc è uno dei big orientali per le costruzioni, con un fatturato nel 2017 da 75 miliardi di dollari, ed è la numero tre al mondo nella classifica Engineering news record per fatturato internazionale: 23,1 miliardi di dollari. Il gruppo è noto soprattutto per la costruzione, completata di recente, del ponte marino che collega la Cina con Hong Kong e Macao. Si tratta di un viadotto di 54,7 km, il più lungo del mondo. Non a caso si era proposta anche per la costruzione del nuovo ponte Morandi poi assegnato alla cordata Salini-Fincantieri. In Etiopia il gruppo cinese ha costruito oltre 2.500 chilometri di autostrada, ha ingrandito l’aeroporto internazionale di Addis-Abeba e inaugurato un ponte autostradale a Brazzaville; in Gambia ha rifatto il porto di Banjul e aumentato i terminal portuali a Kribi in Camerun. Ed è proprio sui porti che ultimamente ha concentrato il proprio core business. Ad Abidjan in Costa d’Avorio, il gruppo cinese sta lavorando da tre anni al grande progetto di ingrandimento dell’area portuale, con degli scavi per aumentare la superficie della via di entrata al porto e lavorando alla creazione del dodicesimo terminal. Un business non da poco che adesso vorrebbe fare anche in Italia, a partire dal porto di Genova.

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