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Prosciolti dirigenti del Mef per il caso dei derivati. Qualcuno deve chiedere scusa?

Luciano Capone

La prima sezione centrale d’appello della Corte dei Conti ha confermato la sentenza di primo grado: il processo non doveva neppure iniziare

Roma. Alla fine, dopo anni, si è chiusa con un nulla di fatto – ovvero con un’assoluzione – il processo sui “derivati del Tesoro” contro alcuni dirigenti del Mef. La procura della Corte dei conti accusava la banca americana Morgan Stanley e quattro ex funzionari del Tesoro di danno erariale per la chiusura anticipata di contratti derivati. Alla ex direttrice del dipartimento del debito pubblico del Mef Maria Cannata veniva chiesto circa 1 miliardo di euro, agli ex ministri dell’Economia Vittorio Grilli e Domenico Siniscalco 23 e 87 milioni, all’ex direttore generale del Mef Vincenzo La Via 122 milioni. E 2,7 miliardi venivano chiesti alla banca americana Morgan Stanley.

 

La prima sezione centrale d’appello della Corte dei Conti ha confermato la sentenza di primo grado con cui la Corte aveva dichiarato “il difetto di giurisdizione nei confronti di tutti i chiamati”. Messa così, sembra quasi che il procedimento sia stato chiuso per una specie di vizio di forma, ma in realtà si tratta di una bocciatura completa dell’impianto accusatorio dell’accusa. Tradotto dal linguaggio giuridico, vuol dire che, ancor prima di entrare nel merito, questo processo non doveva neppure iniziare.

 

I funzionari del Tesoro erano accusati perché, con un’operazione difensiva, avevano cercato di coprirsi dal rischio di un rialzo dei tassi attraverso alcuni contratti derivati. Per un paese ad alto debito come l’Italia, uno dei criteri per una sana gestione del debito pubblico è la prudenza, e la protezione da un rialzo dei tassi faceva parte di questa visione. Nessuno all’epoca poteva prevedere il fallimento di Lehman Brothers e l’arrivo della grande crisi il mondo, lo stravolgimento dei tassi e il radicale cambio di comportamento delle banche centrali. Pertanto ala chiusura anticipata del derivato da parte di Morgan Stanley, prevista dal contratto, è costata 3,1 miliardi di euro. Una decisione a cui il Tesoro non poteva opporsi, anche perché, in piena crisi del debito, avrebbe dato un segnale di scarsa credibilità ai mercati che già avevano poca fiducia nell’Italia.

 

Ma ciò che è più rilevante è che su questi aspetti si erano già pronunciati due tribunali, con due archiviazioni. In seguito a un’indagine della procura di Trani collegata ai “complotti” (smentiti) delle agenzie di rating, inchiesta poi trasferita a Roma per competenza territoriale, nel 2015 Maria Cannata è stata archiviata per manipolazione del mercato, truffa e abuso d’ufficio. L’archiviazione era stata richiesta dall’accusa, dal pm Nello Rossi e dal procuratore Giuseppe Pignatone, sulla base di una consulenza tecnica che ha rilevato come la clausola “non poteva essere considerata in sé come fonte asimmetrica tra le parti contraenti” e che lo stato non aveva alternative “giuridicamente e razionalmente praticabili” al rispetto del contratto, anche perché in caso di contestazione avrebbe subìto un danno “facilmente intuibile in termini di perdita di reputazione e difficilmente calcolabile nei suoi effetti economici”. Allo stesso modo, nel 2016 il Tribunale dei ministri ha archiviato le accuse all’ex premier Mario Monti e al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.

 

Queste archiviazioni però non sono bastate. Il procuratore della Corte dei Conti De Dominicis (assessore per un giorno di Virginia Raggi) – che aveva già aperto una simile inchiesta, poi archiviata, su S&P – apre un’inchiesta in cui afferma che Morgan Stanley avrebbe violato i suoi doveri “di servizio” con lo stato e i funzionari sarebbero colpevoli di “mala gestio”. L’impianto è surreale perché presuppone che Morgan Stanley rientri nel perimetro della Pubblica amministrazione. E pertanto è stato smontato in giudizio con una sentenza che, attraverso il “difetto di giurisdizione”, afferma che Morgan Stanley è una controparte contrattuale (non un’emanazione dello stato) e che le decisioni dei dirigenti del Tesoro sono state pienamente legittime (“La valutazione della congruità non deve essere fatta ex post, ma ex ante”, aveva detto il giudice in primo grado). Al calvario giudiziario durato svariati anni, va aggiunto il linciaggio mediatico-politico di alcuni giornali e partiti (uno su tutti il M5s attraverso esponenti che adesso presiedono commissioni e sono al governo).

 

Pochi giorni fa anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha ricordato che è stato oggetto di un processo sommario, perché indagato in maniera molto strana (e poi archiviato) per il commissariamento della Banca di Spoleto (che ha poi portato al risanamento dell’istituto). All’epoca l’attuale sottosegretario grillino al Mef Alessio Villarosa dichiarò: “La banca di Spoleto non doveva essere commissariata, c’è lo zampino di qualcuno e di Visco in primis. Vogliamo le dimissioni del governatore della Banca d’Italia”. Forse qualcuno oggi dovrebbe chiedere scusa, sia ai dirigenti del Tesoro sia alla Banca d’Italia, con la stessa intensità e veemenza con cui sputava sentenze.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali