Operai in uno stabilimento Fca in Michigan (foto Reuters)

A Detroit, a Detroit

Giuseppe Berta

Fca investe in Chrysler e assume mentre le altre big licenziano, ma resta scoperta sull’auto del futuro. Torino e il nodo della reindustrializzazione

Il comunicato stampa che Fiat Chrysler Automobiles ha emesso il 26 febbraio dev’essere stato come musica per le orecchie di Donald Trump. Il gruppo ha annunciato un piano di investimenti negli Stati Uniti che va incontro ai desideri del presidente e alle sue promesse di reindustrializzazione del Midwest e della Rust Belt, la fascia della ruggine, costellata di impianti produttivi dismessi. Fca investirà a breve 4,5 miliardi di dollari, prevalentemente in Michigan e all’interno della stessa città di Detroit, con una ricaduta occupazionale di 6.500 nuovi posti di lavoro. Il fulcro dell’investimento è costituito dalla fabbrica che si realizzerà all’interno della cinta urbana dell’antica “Motor City”, presso Mack Avenue. Si prevede che darà lavoro a 3.850 persone. Sarà un’attività in controtendenza con la storia degli ultimi trent’anni, perché era dal 1991 che non si attivava un nuovo complesso produttivo, in una città che è stata teatro della ritirata dell’industria.

 

E’ dal 1991 che non si attiva un nuovo complesso produttivo, in una città che è stata teatro della ritirata dell’industria. Il divario con Gm

Più in generale, il comunicato aziendale sottolinea come nelle strutture produttive di Chrysler siano stati investiti, nel decennio in cui è subentrata la nuova proprietà, circa 14,5 miliardi di dollari, con un effetto occupazionale di circa 30.000 posti di lavoro. Stando a queste cifre, la più piccola delle Big Three del sistema americano dell’auto è quella che si è comportata meglio, da questo punto di vista, tanto da guadagnarsi l’encomio di Trump, che invece in più d’una occasione ha rampognato gli altri produttori. Mary Barra, per esempio, la volitiva Ceo di General Motors, nei mesi scorsi ha attirato su di sé gli attacchi della politica, non solo del governo, per aver avviato un robusto taglio di capacità produttiva e occupazione, a causa di un piano di chiusura di stabilimenti importanti come quello di Lordstown, nell’Ohio. Saranno oltre 14.000 i posti che dovranno essere soppressi.

 

Come mai questa divaricazione tra Fca e Gm? Perché il gruppo più piccolo annuncia un programma dettagliato di investimenti, mentre il maggiore, che vende il doppio delle vetture di Fca ed è la prima società automobilistica per capitalizzazione a Wall Street, procede a un drastico ridimensionamento del suo apparato produttivo? La spiegazione sta nella diversa composizione dell’offerta di prodotto che caratterizza le due imprese. L’una, Fca, era meno appesantita dalla produzione di berline classiche, con una debole presa di mercato, mentre l’altra, Gm, si è definita nella sua storia per l’ampiezza di gamma dei propri modelli. Sicché quando si è manifestato il declino delle vetture tradizionali, sostituite nei gusti del pubblico da Suv, crossover e pickup, Fca è stata prontissima nel cogliere la nuova tendenza di mercato e nel reagirvi. Si è liberata così senza esitazioni dei prodotti che non godevano più del favore del pubblico, per concentrarsi totalmente sui due marchi che Mike Manley ha portato al successo, Jeep, che ha riscosso un consenso mondiale, e Ram, che ha avuto un riscontro più sul mercato locale.

 

Quando si è manifestato il declino delle vetture tradizionali, sostituite nei gusti del pubblico da Suv e crossover, Fca è stata prontissima

In questo senso, Fca si è mossa, rispetto a due imprese di dimensioni ben superiori come Gm e Ford, con la destrezza di una caravella, poco impacciata dal peso di strutture produttive che, nel caso delle altre due case americane, risultano sovradimensionate, più complicate da gestire e ridurre. Oggi così la scommessa del gruppo di Auburn Hills, dov’è la sede di Fca, è di puntare tutto o quasi su Jeep, a livello mondiale, e su Ram, soprattutto negli Stati Uniti e in America Latina, lasciando al resto un ruolo più che residuale. Questa scelta di focalizzazione del prodotto impone però un ulteriore rafforzamento della gamma d’offerta relativamente al marchio di punta. Di qui la decisione di colmare lacune come la mancanza di modelli ibridi, un vuoto cui, da quanto si apprende, Fca intende rimediare nel più breve tempo possibile.

 

Emerge tuttavia un’evidente differenza rispetto alle strategie d’investimento di Gm e Ford. Queste ultime sono oggi proiettate verso la trasformazione in gruppi che producono non più soltanto automobili bensì sistemi di mobilità, con una forte tensione in direzione delle piattaforme elettriche e delle tecnologie driverless. Per il momento, invece, non si vede un analogo impegno da parte di Fca, che è protesa piuttosto a trarre il maggior vantaggio dall’attuale fase di mercato, sviluppando le tipologie di prodotto di cui si è detto. Gli analisti si domandano quanto durerà l’attuale orientamento e quanto ci verrà prima che anche questa tendenza venga ad essere ridimensionata. In altri termini, sembra di cogliere presso Fca una proiezione minore verso i grandi cambiamenti tecnologici, destinati a segnare i prossimi decenni, cioè verso quella che è destinata a diventare la nuova industria della mobilità. Un’industria dall’intonazione meno manifatturiera rispetto al passato, più condizionata dalla ricerca di nuove forme di servizio e dall’offerta di nuovi modelli di utenza per il pubblico. Il settore dell’auto dovrebbe così cedere il posto alla generazione di un’offerta complessa e differenziata di mobilità, che produttori come Gm e Ford sembrano intenzionati a presidiare.

Il Piemonte all’ultimo posto delle regioni settentrionali nella classifica del pil pro capite. Puntare sull’integrazione fra auto e digitale

Tale transizione rappresenta un passaggio fondamentale nella storia dell’industria. E’ una discontinuità rispetto alla concezione novecentesca dello sviluppo industriale, quando l’auto costituiva “the industry of industries”, come Peter F. Drucker scrisse alla metà degli anni Quaranta, dopo aver a lungo studiato l’organizzazione di Gm. Significa la rimessa in discussione di un modo di concepire il business e, allo stesso tempo, la reinvenzione delle procedure e persino dei confini della grande impresa, che non potrà più essere regolata secondo i criteri della tradizione industrialista. Mary Barra, alla testa del gruppo che in America si è inoltrato di più nella sperimentazione, accoppiando piattaforme elettriche e guida autonoma, sembra risoluta a proseguire lungo questa strada e ad accantonare le ingenti risorse indispensabili, a costo di affrontare drastiche riorganizzazioni interne. Ford, che ha accusato problemi di guida manageriale e di redditività, pensa probabilmente di avvalersi di forme di alleanza internazionale, che consentano di razionalizzare gli investimenti. Nell’uno e nell’altro caso, è chiaro che si tratta di andare oltre i limiti del passato per definire nuovi modelli di business.

 

E’ in questa logica che va considerata la questione della reindustrializzazione di Detroit. E’ evidente che è una logica diversa da quella che ha in mente Trump, il quale vorrebbe ripristinare una capacità produttiva oggi irrecuperabile. Perché l’auto mobilita le catene internazionali del valore, certamente, ma soprattutto perché non è ipotizzabile un ripristino dell’autosufficienza produttiva di Detroit, un centro che ha sostituito la vecchia definizione di Motor City con quella, più aggiornata e accattivante, di “città digitale”. E’ passata una visione dell’industria che appare influenzata non poco da Elon Musk e dal capitalismo californiano, in cui l’auto si converte in “un computer con le ruote”. Proprio ciò che sono le Tesla.

 

In questi anni si è svolta una sorta di competizione sotterranea fra il capitalismo californiano e Detroit, col primo che rivendicava la necessità di un cambio di paradigma tecnologico in grado di rivoluzionare il prodotto auto e la seconda che rivendicava la funzione indispensabile del proprio sistema di competenze, a suo giudizio ineliminabile quando occorra organizzare un processo di produzione su larga scala.

 

Una proiezione minore verso i grandi cambiamenti tecnologici. La competizione sotterranea tra il capitalismo californiano e Detroit

Può darsi che il confronto si risolva con un compromesso. E’ improbabile infatti che Detroit possa accrescere il proprio tasso di occupazione industriale, tanto meno portarlo a livelli molto più elevati degli attuali, dopo lunghi decenni di deindustrializzazione. Ma può consolidare un proprio modello neoindustriale, fondato sull’integrazione dei saperi e delle specializzazioni, trasversali al sistema dell’auto come alle altre attività. Il futuro economico di Detroit è perciò affidato alla sua capacità combinatoria, all’attitudine ad associare produzione e servizio, i sistemi derivati dall’esperienza della produzione di massa con le tecnologie digitali applicate alla regolazione del traffico e della mobilità. Sposando quindi in maniera indissolubile la produzione materiale di beni con la generazione di servizi sempre più differenziati e sofisticati. In prospettiva, parlare di reindustrializzazione vuol dire soprattutto questo.

 

E’ una lezione di metodo che non vale soltanto per Detroit ma per altre aree nel mondo che devono condurre a loro volta un’opera di reindustrializzazione, se non vogliono decadere irreversibilmente. Come Torino, che sta pagando un prezzo salato alla deindustrializzazione. Ormai il Piemonte si colloca all’ultimo posto delle regioni settentrionali nella classifica del pil pro capite, con un divario rispetto alla confinante Lombardia di circa 8.000 euro. La forbice si è progressivamente allargata nel corso dell’ultimo ventennio, di pari passo con la caduta della produzione industriale.

 

In quella che è stata la capitale italiana dell’automobile e uno dei suoi centri europei, le notizie sembrano giungere da Detroit da una distanza ancora superiore a quella che intercorre fra i due continenti. Lo scorso anno a Torino sono state prodotte poco più di quarantamila vetture. Quest’anno il loro numero sta scendendo ancora. I volumi sono insufficienti affinché la città possa sentire riconfermata la propria identità industriale, per quanto riclassificata. Anch’essa ha urgente bisogno di una politica di reindustrializzazione, che non lasci andare disperso il grande patrimonio dei mestieri e delle competenze dell’auto, di cui l’anima economica di Torino non può fare a meno.

 

Il distretto dell’auto locale risente però del palese disorientamento indotto dalla contrazione della presenza del suo produttore storico, il soggetto che esercitava al suo interno il ruolo di ordinatore. L’area torinese non ha le prerogative della Motor Valley emiliana: non è un aggregato policentrico e pluralistico. O meglio, è sospinto in qualche misura verso questo approdo, ma non ne è certo l’esito consapevole. La sua è una realtà profondamente imbevuta di elementi gerarchici, che dipendono dall’azione che ha sempre svolto il decisore di ultima istanza, la Fiat. Ora tale azione è venuta meno perché la casa produttrice che nella primavera del 2009, nel pieno della crisi globale, spiccò il volo dal Lingotto verso Auburn Hills e il Michigan, ha affievolito i legami col suo territorio d’origine. E’ andata così perché Sergio Marchionne non riuscì, nella sua campagna-lampo di dieci anni fa, a completare e a perfezionare il suo disegno strategico acquisendo il controllo di Opel, dopo essersi aggiudicato quello di Chrysler. Così la configurazione del gruppo globale cui puntava è rimasta monca. Di conseguenza, il peso della fusione tra Fiat e Chrysler non poteva che spostarsi sul versante americano. Marchionne, peraltro, non ha mai detto di voler ridurre al lumicino le attività torinesi di Fca, dove aveva aperto anche lo stabilimento Maserati di Grugliasco. Ma il capitolo del piano industriale dedicato ad Alfa Romeo e Maserati (e al possibile “polo del lusso” di cui si parlò per un certo periodo) è rimasto fin qui sulla carta. La sorte di questi due marchi, sideralmente distanti dai traguardi di mercato che erano stati indicati, permane nebulosa. In Italia siamo ben lontani, infine, dal disporre di un piano degli investimenti dettagliato e circostanziato come quello elaborato per gli Usa.

 

Eppure, il futuro economico di Torino passa ancora dal distretto economico, che può essere rilanciato se gli si imprime un profilo più cooperativo, fondato anche qui sull’integrazione fra le competenze, sulla compenetrazione fra l’auto e il digitale. Fca può avervi parte senza dover più necessariamente interpretare la parte del soggetto decisore di ultima istanza, situandosi entro margini più delimitati. A patto di credere ancora nella dotazione industriale di questo territorio e nella sua capacità di risollevarsi dalla condizione presente. Perché sarebbe un vero peccato se quest’esperienza produttiva e imprenditoriale si spegnesse un po’ alla volta, sottotraccia e nel silenzio, come accadde all’universo olivettiano della vicina Ivrea molti anni fa.