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Le parabole di Volkswagen e Fca raccontano quelle di Berlino e Roma

Giuseppe Berta

La casa tedesca è proattiva nel tentare di agganciare la tendenza elettrica mentre quella italo-americana si barcamena

La settimana scorsa il gelo di Detroit, dove si è tenuto l’annuale Salone dell’automobile, ha investito un settore attraversato da grandi preoccupazioni circa il proprio futuro.

Nella città del Michigan, che un tempo era Motorcity e oggi preferisce definirsi “città digitale”, sono affiorati i problemi di un sistema dell’Auto impegnato in una transizione estremamente ardua e complessa. Da un lato, infatti, le cifre delle vendite, pur in fase di ripiegamento, non sono tali di per sé da configurare un a situazione di crisi. Dall’altro, invece, la trasformazione del mercato mette sotto stress le capacità di produttori che devono compiere un doppio movimento, affrontando cioè contemporaneamente il passaggio all’elettrico e un mutamento intenso nelle preferenze e nei comportamenti dei consumatori.

 

Guardiamo, per esempio, al mercato nordamericano: lo scorso anno si è attestato sul valore ragguardevole di 17,3 milioni di vetture vendute, poco sotto ai livelli record. Se si guarda al suo interno, si può constatare tuttavia come esso sia dominato da Suv, crossover, pick-up, mentre le berline classiche sono in caduta. Di qui il ridimensionamento drastico – che assomiglia quasi a un abbandono – della produzione tradizionale da parte di General Motors e Ford. Fiat Chrysler Automobiles (Fca), invece, si era mossa per tempo in questa direzione, concentrando tutte le sue energie sui due marchi che assicurano al gruppo gli attuali, importanti livelli di redditività.

 

Riflettere sul gelo del Salone di Detroit per capire che nell’alleanza tra Volkswagen e Ford
c’è una scintilla di vitalità in un settore che deve reinventarsi. Mentre nel disimpegno graduale
di Fca dall’Italia (con l’alibi di un governo avverso all’auto tradizionale)
c’è il sentore della marginalizzazione del nostro paese
 

Anche al salone di Detroit, Fca ha confermato l’intenzione di proseguire lungo una direttrice strategica che potrebbe portare Jeep a vendere 2 milioni di veicoli all’anno (oggi sono 1,6 milioni), rafforzando al contempo l’offerta Ram. Questa scelta, compiuta in anticipo rispetto agli altri due produttori di Detroit, ha permesso a Fca di cogliere in pieno l’onda del mercato, assicurandosi una posizione di vantaggio, come ha sottolineato la settimana scorsa anche il Wall Street Journal. Così, anche se dispone di modelli meno ricchi di tecnologia rispetto a quelli della concorrenza, ha potuto beneficiare in pieno del cambio di orientamento del mercato, anticipando le azioni che Gm e Ford hanno compiuto in seguito, quando hanno deciso di alleggerirsi della loro produzione di berline. A differenza di Fca, tuttavia, Gm e Ford stanno investendo massicciamente nelle piattaforme elettriche e nelle nuove forme di mobilità, nella convinzione che la situazione attuale non potrà durare all’infinito e sarà necessario proporre al mercato auto e soluzioni nuove.

 

Ford, più ancora di Gm, è alle prese con questo cambiamento e con le sue conseguenze. La settimana scorsa c’era molta attesa, probabilmente eccessiva, per l’annuncio dell’alleanza con Volkswagen. Quando essa è stata comunicata nella sua portata effettiva, martedì 15 gennaio, si è così diffuso un sentimento di delusione che ha influenzato negativamente anche i mercati finanziari. A Wall Street il titolo Ford aveva così registrato un’ulteriore discesa, che cumulandosi con le precedenti ha determinato un calo del valore del titolo pari al 39 per cento. In sostanza, l’intesa che è stata presentata è incentrata, almeno per il momento, soltanto sui veicoli commerciali (che tutti pronosticano in espansione, mentre il numero delle auto è destinato complessivamente a ridursi). Per il momento, non è stato detto nulla circa la collaborazione sulle nuove tecnologie, che prima pareva una strada destinata ad aprirsi in breve. Ancora nulla di preciso circa l’utilizzo incrociato di siti produttivi negli Stati Uniti e in Germania, in modo che Vw possa utilizzare gli impianti di Ford in America e Ford quelli di Vw in Europa, così da ottenere un rilevante abbattimento dei costi (derivante soprattutto da un taglio delle fabbriche e dei posti di lavoro che la casa di Detroit ha nel nostro continente). Un silenzio totale, infine, circa la possibilità di una scambio azionario, cui non si vuole nemmeno alludere.

 

Eppure, bisognerà seguire con molta attenzione quest’abbozzo di alleanza, che oggi si stenta persino a chiamare con questo nome, tra due grandi case che comunque, coi loro circa 17 milioni di veicoli, condizionano la configurazione internazionale del mercato dell’auto. Ford, in particolare, si accinge a giocare una partita decisiva per la sua continuità, perché la sua guida manageriale stenta a stabilizzarsi, con profitti in declino e costi di riorganizzazione crescenti (sono previsti investimenti per 11 miliardi dollari). Dovrà muoversi con grande accortezza per non perdere la propria posizione.

 

In una simile cornice, riesce difficile introdurre il discorso sull’Italia. Semplicemente occorre riconoscere che il nostro sistema dell’auto si colloca ai margini di questa grande trasformazione. La crescita di Fca in Europa è legata all’espansione dei veicoli col marchio Jeep. Ciò significa che i marchi italiani, in una prospettiva simile, non possono che essere residuali. E infatti sul “polo del lusso” (Alfa Romeo più Maserati) è sceso il silenzio e non sembra proprio che sarà dissipato nei prossimi tempi. Il malaccorto provvedimento del governo sulle auto ecologiche non ha fatto che rafforzare la riluttanza con cui Fca guarda all’Italia. L’idea della 500 elettrica rimane in piedi, ma per ora è ancora una suggestione o, al più, l’etichetta di un progetto che deve essere messo in atto. Un progetto, ricordiamolo, che non può affermarsi se non trova un retroterra favorevole alla diffusione dell’auto elettrica. Ma non si vede ancora nessun segno concreto dell’infrastrutturazione che sarebbe indispensabile a questo scopo. E si può pensare al successo internazionale di un veicolo che non trova una sponda nel paese in cui è realizzato?

 

Il pericolo di una marginalizzazione definitiva dell’Italia nel sistema dell’automobile è quindi molto concreto. A meno che non prenda davvero consistenza l’ipotesi di una cessione dei marchi nazionali e dei relativi impianti a un gruppo straniero, orientale, magari cinese, come si è tornati a dire in questi giorni. Al punto in cui siamo è quasi una condizione sine qua non perché l’automotive abbia un futuro nel nostro paese.

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