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Dove sono i capitalisti italiani

Francesco Giavazzi

E’ solo un caso che alcune tra le ​​aziende di maggior successo siano nate fuori dal circuito​ pubblico? Un libro

Pubblichiamo la prefazione a “L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti”, il volume di Beniamino Piccone edito da Vitale & co. presentato giovedì a Milano


    

Beniamino Piccone conclude il capitolo centrale del libro che vi apprestate a leggere, il capitolo intitolato “Che fine ha fatto il capitalismo italiano”, scrivendo: “Da questa lunga analisi è emersa l’incapacità della grande impresa italiana a trovare la via del proprio sviluppo. Ha cercato di arroccarsi attorno a Mediobanca che l’ha aiutata. Forse fin troppo. ‘Ho dovuto fare le nozze con i fichi secchi’ disse Enrico Cuccia. Esaurito il ruolo dell’Iri è mancata clamorosamente la grande impresa privata che è stata foriera, più volte nella storia italiana, di molte illusioni. L’industria italiana non ha mai fatto da sé. Due personaggi, prima di Cuccia, l’hanno tenuta in piedi: Bonaldo Stringher e Alberto Beneduce. Il capitalismo italiano si è mostrato inadatto alle sfide del suo tempo. Sono emersi vecchi limiti: un capitalismo senza capitali, scarsa attitudine a rischiare, tentazione di adagiarsi sull’investimento dello stato. Invece di stimolare la classe politica a produrre le condizioni favorevoli per fare impresa e creare un clima favorevole allo sviluppo, i grandi imprenditori hanno chiesto aiuti, sussidi spingendo l’Italia verso un modello di capitalismo assistenziale. In questo contesto si è sviluppato il Quarto capitalismo. Imprese competitive sui mercati internazionali, capaci di combinare al meglio i fattori di produzione. Quando la famiglia proprietaria dell’impresa riesce a uscire dal familismo e a far valore professionalità e merito queste imprese sono quasi imbattibili”.

   

Un giudizio severo ma non infondato. D’altronde in un’intervista al Corriere della Sera pubblicata il 20 febbraio 1996, alla domanda: Anche il capitalismo privato nella Prima Repubblica non ha funzionato? Giovanni Agnelli rispondeva: “Certamente. Diciamo che gli anticorpi non hanno funzionato. Ma dovevamo scendere a patti con i partiti politici e con l’impresa pubblica. Se in Italia, dopo cinquant’anni, la Fiat non è finita all’Iri o in mani estere è già un miracolo”.

     

A ben pensarci non si è trattato di un miracolo, bensì della degenerazione​ ​di un rapporto tra ​stato e imprese private che in Italia ha radici lontane.​ ​Ricordando la figura di Alberto Beneduce,​ Marcello de Cecco scriveva: “Circondando le banche e i​ ​grandi gruppi industriali che da esse dipendevano, di un cordone sanitario​ ​rappresentato dagli istituti di credito speciale, riuscì a Beneduce di​ ​spegnere le fiamme del grande incendio dei primi anni ​Trenta operando una​ ​riforma delle nostre strutture finanziarie che ha dominato la vita​ ​economica per i sessanta anni successivi. Si creò così un sistema assai più​ ​simile a quello dei paesi del socialismo reale che a quello dei vari​ ​capitalismi nazionali. Alla finanza basata sul rischio si sostituì quella​ ​basata sulla garanzia statale”. Il modello funzionò bene negli anni dell’autarchia, e anche nel primo​ ​Dopoguerra, finché quella italiana rimase un’economia relativamente​ ​chiusa, e comunque finché la regia fu affidata a uomini come Beneduce,​ ​Sinigaglia, Menichella e Visentini. Ma negli anni Sessanta, con l’ingresso​ ​nel mercato comune europeo, anziché evolvere verso il mercato, il modello​ ​degenerò, e non solo perché il castello costruito da Beneduce cadde in​ ​altre mani. Si saldò, tra lo st​​ato e i grandi gruppi industriali privati, i​ ​pochi che erano rimasti dopo la nazionalizzazione delle aziende elettriche​,​ un contratto​ implicito: i privati​ ​delegavano allo stato la realizzazione di grandi progetti di investimento,​ ​dall’accia​i​o alle autostrade. Fu così che il peso delle aziende ​p​ubbliche nell’economia raddoppiò, dal 12 per cento nel 1963, al 20 per cento nel​ ​1979. In cambio lo stato garantiva ai privati ampie protezioni dalla​ ​concorrenza internazionale.

    

Non ci si può allora meravigliare se​ il capitalismo italiano è apparso ​ ​incerto, incapace di rinnovarsi, poco preparato a confrontarsi con un mercato che ​diventava via via sempre più difficile proteggere. Forse non è un caso che ​alcune del​le nostre​ ​aziende di maggior successo siano quelle nate e cresciute al di fuori del circuito​ pubblico: ​una per tutti Luxottica, imprese che hanno sempre​ ​venduto più all’estero che in Italia, e comunque mai allo stato, e che si​ ​sono quotate in Borsa a New York prima che a Milano​.​ E’ qui che si è sviluppato il Quarto capitalismo cui il libro di Piccone giustamente dedica tanto spazio. Imprese che nei casi in cui sono riuscite a crescere emancipandosi dal “familismo”, ma non solo in quelli, vedi ad esempio Ferrero, sono diventate leader mondiali nei loro settori.

   

Questa l’analisi di Piccone, certamente condivisibile, anche se l’autore è più cauto nel far risalire la debolezza delle nostre grandi imprese private a quel contratto implicito che stato e industriali firmarono negli anni Sessanta. C’è però un’altra interpretazione, parallela, non alternativa, ispirata dagli studi di Daron Acemoglu, Philippe Aghion e Fabrizio Zilibotti. Il punto di questi autori è che l’assetto dell’industria di un paese dipende dalla sua distanza dalla frontiera tecnologica. Paesi molti distanti dalla frontiera crescono soprattutto per imitazione, cioè importando tecnologia dai paesi più avanzati. L’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta è un buon esempio. Pensate all’industria degli elettrodomestici, alle automobili, ma anche al processo di fabbricazione dell’acciaio a “colata continua” installato negli stabilimenti Italsider di Taranto (l’Ilva dei giorni nostri) alla fine degli anni Sessanta. Imitare non esclude fabbricare prodotti migliori di quelli che si imitano. In Giappone, ad esempio, un caso simile a quello italiano, seppure un paio di decenni dopo, produceva oggetti elettronici di qualità superiore a quelli americani. Ma la tecnologia di base rimaneva quella sviluppata negli Stati Uniti.

    

La crescita basata sull’imitazione ha alcune caratteristiche. Richiede grandi disponibilità di capitale e un’organizzazione dell’impresa che lascia poco spazio alla fantasia perché si tratta di seguire i “blueprint” importati e deviare il meno possibile. Le ordinate fabbriche giapponesi con schiere di lavoratori in camice bianco disposti lungo file interminabili ne sono un esempio. In questo sistema il ruolo delle banche è quello di trasferire il risparmio dalle famiglie alle imprese, senza preoccuparsi di come esse impieghino i finanziamenti concessi, tranne verificare che imitino bene i processi importati. In un modello siffatto non serve la concorrenza, non servono banche d’affari e venture capital. Istituti di credito posseduti dallo stato vanno benissimo, e infatti sia in Italia che in Giappone, le banche erano, direttamente o indirettamente, tutte pubbliche. Anche l’industria può essere pubblica, come nel caso dell’Iri in Italia, o comunque diretta dallo stato, il modello del Miti giapponese.

    

Quando però un paese raggiunge la frontiera tecnologica, crescere per imitazione non è più possibile: la crescita ora richiede la capacità di innovare. Come ha scritto sul Corriere della Sera Dario Di Vico, “Toccherà agli storici raccontare le occasioni perdute nel nostro settore degli elettrodomestici, un settore che con l’auto ha rappresentato nel 900 uno dei punti di forza dell’industria italiana. Ma più che l’ipotesi di creare nel tempo fra alcune imprese un polo nazionale, forse altre sono state le battaglie perse. Innanzitutto nell’innovazione”.

    

Quando si tratta di innovare le vecchie istituzioni non vanno più bene. Serve la concorrenza per selezionare i progetti migliori e servono istituzioni finanziarie agili e capaci di individuare e scommettere su quelli vincenti. Ma la transizione non è semplice perché le vecchie istituzioni non accettano facilmente di essere messe da parte. E hanno la capacità di difendersi perché molti anni di gestione del potere hanno forgiato solidi legami con la politica. In Italia fortunatamente ci ha pensato l’Europa e le regole che negli anni Novanta ci obbligarono a liquidare l’Iri. Ciò non accadde in Giappone dove il “vecchio mondo” resistette più a lungo, e in parte ancora resiste. Alcuni attribuiscono a queste resistenze la crisi che da quasi trent’anni attanaglia l’economia giapponese e dalla quale il paese sembra incapace di districarsi.

    

E’ quindi possibile che “l’incapacità della grande impresa italiana a trovare la via del proprio sviluppo”, la domanda che si pone Piccone, dipenda dal fatto che i nostri grandi industriali del Dopoguerra, gli Agnelli, i Pirelli, i Pesenti e sul fronte finanziario i Cuccia e i Maranghi quella via non l’hanno trovata perché non esisteva: era un percorso che si era esaurito quando l’Italia, alla fine degli anni Sessanta, raggiunse la frontiera tecnologica. Il modello non si poteva sviluppare perché era sostanzialmente finito. Con la differenza che la fine della gamba pubblica di quel modello fu accelerata, come abbiamo visto, dai vincoli europei, mentre la gamba privata continuò per un altro decennio. La vicenda della Fiat fino all’approdo a Torino di Sergio Marchionne ne è un buon esempio. Qui si inserisce quello che è stato chiamato il Quarto capitalismo. Imprese che non avevano partecipato alla fase dell’imitazione e che sono tutte dentro la fase dell’innovazione. La meccanica veneta ed emiliana, i Brevini per fare un esempio, sono alcuni casi straordinari. Ma anche Brembo, Marposs, Datalogic, Prysmian e tanti altri.

   

In conclusione. Il vecchio capitalismo italiano ha certamente commesso molti errori. Talvolta, come diceva l’avvocato Agnelli, perché non è riuscito, o solo in parte, ad arginare la politica. Talvolta perché il contratto implicito che aveva siglato con la politica gli andava benissimo. Ma al fondo c’è il fatto che quell’industria apparteneva a una fase, quella della crescita per imitazione, che si era esaurita. Quel capitalismo era finito e la sua storia gli rendeva molto difficile passare alla fase dell’innovazione. Anche perché lo stato era prodigo di sussidi ma sempre avaro quando si trattava di creare le condizioni necessarie per l’innovazione, cioè l’affermarsi di una vivace ricerca di base, nelle università (si legga la senatrice Elena Cattaneo “Se l’Italia non cerca ricercatori”, sul Sole 24 Ore del 30 settembre 2018) ma anche in quelle aziende in cui spesso nasce l’innovazione ad esempio nell’industria aerospaziale.

   

Fortunatamente, in Italia a differenza del Giappone, quei capitalisti sono stati rimpiazzati da soggetti nuovi che vivono nell’innovazione, trascorrono più settimane con i loro clienti in giro per il mondo che in Italia, considerano la concorrenza il loro modus vivendi e non gli passa neppure per la testa di dedicare una giornata a cercare un sussidio pubblico nei palazzi del governo. Che siano nate queste imprese è la grande fortuna del nostro paese e ciò che apre una speranza per il futuro. Ma pur lavorando e producendo in Italia, questi imprenditori hanno la testa lontana dall’Italia. Il rischio è che non si accorgano che una nuova classe politica si propone di distruggere ciò di cui essi vivono: il lavoro, il merito, la concorrenza. Ricordino questi ottimi imprenditori il monito di Luigi Einaudi, che nel 1924 scriveva sul Corriere della Sera (6 agosto 1924): “Contro lo stato di illegalismo, contro le minacce di seconda ondata, contro la soppressione della libertà di stampa hanno protestato i giornali, i collegi professionali degli avvocati, partiti politici pur aderenti al governo attuale, come i liberali ed alta si è sentita ieri la voce dei combattenti. Soltanto i capitani dell’Italia economica tacciono”.

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