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La controriforma Madia nessuna partecipata si porta via

Carlo Valdes

La legge di Bilancio cambia la norma sull’alienazione delle società parastatali per salvare carrozzoni e poltronifici

Nel caotico insieme di disposizioni inserite nel disegno di legge di Bilancio presentato al Parlamento, un articolo ha dato il colpo di grazia a una delle (poche) iniziative di revisione della spesa degli ultimi anni: la riforma Madia delle società partecipate. Con questo articolo viene stabilito che le amministrazioni pubbliche potranno mantenere le partecipazioni in tutte le società che nella media degli ultimi tre anni hanno avuto un utile (fino al 2021, ma si sa che in Italia dopo un rinvio ne arriva sempre un altro). Con questa disposizione si stravolge completamente la riforma Madia, ma per capire i dettagli della faccenda occorre partire dall’inizio della storia.

 

In termini generali, la riforma Madia obbligava le amministrazioni pubbliche a liberarsi delle partecipazioni in società che non svolgevano attività di interesse pubblico, che non servissero per la realizzazione di opere pubbliche o che non producessero beni e servizi strumentali alla pubblica amministrazione. In realtà, anche altri criteri imponevano l’alienazione delle partecipazioni: si chiudevano, per esempio, le famose “scatole vuote”, cioè partecipate con bassissimo fatturato, più membri del consiglio di amministrazione che dipendenti, eccetera. Insomma, si chiudevano finalmente i veri poltronifici. Certo, la riforma non era comunque perfetta: il criterio dell’”interesse pubblico” restava in particolare troppo vago e le amministrazioni pubbliche erano state capaci di far rientrare tra le attività di interesse pubblico parecchie società nelle quali volevano ad ogni costo detenere le partecipazioni. A titolo di esempio, è emblematico il caso del comune di Bologna che ha potuto mantenere la partecipazione indiretta in due società operanti a Hong Kong e a Parigi, entrambe attive nel restauro e digitalizzazione di materiale audiovisivo e cinematografico. Ora, è chiaro che, in nome della cultura, le due società svolgono un’attività di interesse pubblico. Non invece è chiaro perché la pubblica amministrazione debba partecipare alla proprietà di società che svolgono questo tipo di attività. Detto ciò, non tutto era perduto. Infatti, non per tutte le partecipate le amministrazioni avevano fatto valere la ragione dell’interesse pubblico, e per alcune partecipazioni era effettivamente stata deliberata l’alienazione. Così, con un comunicato stampa francamente un po’ troppo trionfale del novembre 2017, il governo aveva sottolineato che delle 4701 società a partecipazione diretta delle amministrazioni pubbliche, circa un terzo sarebbe stata interessata da interventi di dismissione. Seppur con diverse criticità, si trattava davvero di un primo risultato.

 

A disfare questo processo ci ha pensato il disegno di legge di Bilancio presentato al Parlamento. Se il testo dovesse essere confermato, verrebbe consentito alle amministrazioni di mantenere tutte le partecipazioni in società che hanno registrato un utile nella media degli ultimi tre anni. Non sarebbe più un problema, quindi, il fatto che la società partecipata produca servizi inutili per il perseguimento dell’interesse pubblico oppure che abbia più amministratori che dipendenti o un bassissimo fatturato: se il testo diventerà legge, le amministrazioni potranno tenere qualunque partecipazione, a patto che la partecipata non sia in perdita.

 

Ora, qualcuno dirà che se la partecipata non è in perdita non c’è un vero motivo per cui l’amministrazione debba liberarsene. E invece esistono almeno tre motivi per cui il criterio del non fare perdite è del tutto inadeguato.

 

Primo, il fatto che una partecipata registri utili non significa che il saldo per la pubblica amministrazione sia positivo. Infatti, le partecipate possono essere finanziate dalle amministrazioni pubbliche grazie a varie forme di finanziamento o a contratti di servizio, i cui oneri a carico dell’amministrazione spesso eccedono gli utili che vengono redistribuiti alla stessa.

 

Secondo, il fatto che una società abbia avuto risultati positivi in passato non assicura certamente che gli stessi risultati si manifestino in futuro. Se gli utili non dovessero verificarsi negli anni successivi, e se per qualunque motivo la società dovesse cominciare a registrare perdite, il danno per le casse dell’amministrazione potrebbe diventare importante e, in alcuni casi, difficile da sopportare. A questo proposito sia chiara una cosa: se dopo un periodo in utile la società dovesse iniziare a registrare perdite, la partecipazione dovrebbe essere alienata anche secondo le nuove modifiche alla riforma Madia. Ma dal primo anno di registrazione delle perdite al momento dell’alienazione, i costi per l’amministrazione potrebbero essere ingenti!

 

Terzo, finché si concederà alle amministrazioni pubbliche di avere partecipazioni non strettamente indispensabili, rimarrà vago il confine tra ciò che è pubblico e ciò che è privato, esponendo i denari dei contribuenti a iniziative degli amministratori locali dominate da logiche (almeno in alcuni casi) poco chiare.

 

Sarebbe quindi auspicabile che questa nuova disposizione inserita nel disegno di legge di Bilancio non venisse approvata dalle camere e che venissero invece posti limiti precisi e stringenti alle partecipazioni pubbliche, in modo da cancellare finalmente le molte poltrone a disposizione della politica e degli interessi interni alle amministrazioni locali. Questo sì che sarebbe un duro colpo per le realtà fortemente dominate da logiche clientelari.

 

Per ora, ciò che rimane dalla legge di Bilancio appena presentata è quindi solo l’occasione perduta di rompere con le vecchie abitudini del passato: si sta cercando di cambiare la riforma Madia, proprio affinché nulla cambi.

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