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La trattativa impossibile per una manovra impresentabile

Luciano Capone

Le acrobazie impossibili di Salvini e Di Maio per arrivare alle Europee senza troppe ferite. L’allarme recessione del Fmi

Roma. “Il tasso di crescita non si negozia”. La dichiarazione del ministro dell’Economia Giovanni Tria, con cui si è aperta una delicata giornata di vertici e Consiglio dei ministri per rispondere alle obiezioni della Commissione europea, doveva smentire le indiscrezioni che nei giorni scorsi hanno ipotizzato una riduzione della crescita stimata all’1,5 per cento dal governo. Le previsioni macroeconomiche non sono quindi il frutto di una trattativa con Bruxelles, ma neppure di una deliberazione presa in Consiglio dei ministri. Dovrebbero essere una valutazione tecnica. Il problema è che nessuno – ma proprio nessuno, né in Italia né all’estero – crede a una crescita come quella indicata dal governo. L’ultima stima in ordine di tempo è quella del Fondo monetario internazionale, che ha indicato una crescita “attorno all’1 per cento”, addirittura inferiore all’1,2 per cento della Commissione, paventando il rischio che “il rallentamento si trasformi in recessione”. Anche il deficit sarà più elevato del “2,4 sincero” (Di Maio dixit) dell’esecutivo gialloverde, secondo il Fmi arriverà al 2,6-2,7 per cento nel 2019 per poi salire al 2,8-2,9 per cento nel 2020-2021. Sarà quindi di due-tre decimali più basso rispetto al 2,9 e al 3,1 per cento stimati dalla Commissione nelle previsioni d’autunno.

  

Questa discrepanza non è dovuta a una particolare severità della Commissione nel punire l’Italia al fine di accelerare la procedure di infrazione, ma a un diverso metodo nel fare le previsioni. Rispetto al Fmi e anche all’Ocse, che incorporano alcuni elementi di interpretazione politica sul cambiamento del comportamento dei governi, come ad esempio l’annuncio di tagli automatici in corso d’anno nel caso in cui il deficit dovesse salire oltremodo, le stime di Bruxelles vengono fatte su un’ipotesi molto più rigida di no policy change. Ci si attiene cioè molto di più alla lettera che agli annunci e alle dichiarazioni di intenti – e questo porta a conclusioni più pessimistiche – anche perché per la Commissione le previsioni sono importanti per la sua funzione di sorveglianza delle regole fiscali.

     

Questi aspetti, che sembrano noiose questioni tecniche, producono però anche degli effetti politici. Non tanto sulle stime, che tali restano. Ma sulle possibili soluzioni utili a trovare un punto di incontro con l’Europa. Quando si verifica un deterioramento dei conti – nel caso dell’Italia una deviazione “senza precedenti” dagli impegni presi solo qualche mese fa – per rimettersi in carreggiata servono provvedimenti stringenti e non impegni futuri scritti sull’acqua, come la lotta all’evasione fiscale o le solite clausole di salvaguardia riproposte dal governo del cambiamento. Nello stesso senso verrebbero valutate le promesse che gonfiano gli introiti da privatizzazioni, fatte per cercare così di disinnescare le contestazioni sulla violazione della regola del debito ed evitare la procedura d’infrazione. Le promesse su clausole di salvaguardia, lotta all’evasione fiscale e privatizzazioni – soprattutto guardando all’esperienza e ai consuntivi degli ultimi anni – non possono avere un’influenza, se non minima, sul giudizio della Commissione. Ciò che può modificare la posizione dell’Italia, l’unico paese dell’Eurozona che ha deciso di fare un’inversione e correre contromano, sono norme esplicite e cioè una sterzata netta rispetto a una manovra così pericolosa.

  

Di questo al Mef ne sono pienamente consapevoli, ma allo stesso modo – sia a Via XX Settembre sia a Bruxelles – c’è la convinzione che lo scontro con l’Europa sia inevitabile. Perché un cambio repentino dei saldi della legge di Stabilità per Salvini e Di Maio sarebbe politicamente insostenibile. Nonostante i ripetuti riferimenti al “dialogo”, mai come in questa situazione il conflitto – anziché l’accordo – con Bruxelles premia politicamente. Mai come questa volta l’interesse (economico) nazionale è in conflitto con l’interesse (politico) dei partiti di governo. Per Salvini e Di Maio ciò che conta è esclusivamente il brevissimo termine, pagarsi la campagna elettorale con il deficit pubblico sperando che nel frattempo non ci siano troppi danni. Non è detto che il paese riesca a resistere bene. Ma anche se Lega e M5s dovessero giungere alle elezioni europee con il vento in poppa, a maggio non finisce il mondo. Poi arriva giugno. E dopo le elezioni in Europa non si insedierà nessuna Commissione che farà spendere a piacimento: sarà tutto come prima. O forse peggio.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali