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La tanto decantata ricchezza delle famiglie italiane ha fondamenta fragili

Maurizio Sgroi

Secondo Banca d'Italia dopo la sbornia di debito pubblico gli italiani mettono da parte sempre meno

Visto che si fa un gran discorrere della ricchezza finanziaria degli italiani, additata a fattore di stabilità nonché come potenziale fonte di salvezza della contabilità pubblica in caso di fuga degli investimenti esteri dai nostri Btp, vale la pena farsene un’idea più chiara scorrendo un approfondimento pubblicato dalla Banca d’Italia che ne riepiloga per sommi capi evoluzione e fisionomia sin dal 1950.

 

Senza bisogno di addentrarci nelle volute statistiche che raccontano nel tempo l’evoluzione del patrimonio degli italiani, che in media fra beni reali e finanziari ammonta a 9,3 volte il reddito disponibile, 8,5 al netto dei debiti, sono principalmente due gli aspetti che è utile tenere a mente.

 

Il primo è che gli italiani ci sono già passati nel ruolo di grandi acquirenti del debito pubblico. L’incidenza dei titoli nel portafoglio delle famiglie, “bassa negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta”, è successivamente cresciuta, “a causa dell’aumento del debito pubblico, passato dal 55 per cento del PIL nel 1980 al 111 per cento nel 1993". All'epoca "i risparmiatori erano diventati i primi detentori di titoli pubblici, sostituendosi alla detenzione tradizionale da parte delle banche”. Chi oggi immagina gli italiani di nuovo in fila a comprare Btp forse ha una visione diciamo nostalgica del passato. Da allora, infatti, molto è cambiato. E tuttavia ancora alla fine del 2016 i titoli pubblici italiani detenuti direttamente e indirettamente dalle famiglie erano “circa il 16 per cento del totale delle attività finanziarie”. Addirittura “la quota dei titoli di debito detenuti dalle famiglie salirebbe a circa il 30 per cento considerando gli investimenti degli italiani intermediati dai fondi comuni esteri. Secondo una stima preliminare di larga massima, la quota di titoli pubblici potrebbe superare il 20 per cento”. Così sappiamo chi, oltre alle banche e alle assicurazioni italiane, ha pagato il conto dello spread.

 

La seconda cosa è ancora più rilevante. “La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane – spiega Bankitalia - detenuta sotto forma di depositi (31 per cento, ndr), titoli, azioni quotate e non quotate, fondi comuni, strumenti assicurativi e pensionistici privati è pari a circa 4.400 miliardi di euro”. Ma questa montagna di denaro, almeno da un ventennio, modifica la sua fisionomia in gran parte non grazie ai flussi, ossia accantonamenti regolari di risparmio che si trasformano in investimento finanziario, fosse anche in forma di deposito, ma grazie agli aggiustamenti di valutazione degli stock. Dalle osservazioni di Bankitalia questa caratteristica della nostra ricchezza risulta evidente. E questa tendenza si è accentuata dopo la crisi. “Anche se generalmente più piccoli degli aggiustamenti di valore, i flussi delle famiglie italiane hanno contribuito positivamente alla dinamica delle attività finanziarie tra la seconda metà degli anni novanta e il 2006, con tassi compresi tra il 3 e il 6 per cento. Dopo la crisi finanziaria, i flussi sono rimasti positivi ma su livelli bassi, collocandosi quasi sempre al di sotto dell’1 per cento”. Insomma si mette sempre meno da parte. E questo è determinato dal calo del risparmio lordo “passato da un valore medio del 15,7 per cento del reddito disponibile, nel periodo 1995-2008, al 10,7 per cento tra il 2009 e il 2016”.

 

Il calo del risparmio è una probabile conseguenza della diminuzione dei salari reali, che nel nostro paese procede da almeno un paio di decenni. Ma il problema rimane. Il fatto che la ricchezza finanziaria si basi in larga parte sugli aggiustamenti di valutazione invece che sui flussi, come accade ad esempio in Germania, la rende una componente assai volatile perché condizionata dall’andamento dei mercati. "In Italia il valore del portafoglio delle famiglie si è ridotto per circa il 5 per cento sia nel 2007 sia nel 2008, a causa soprattutto dei forti aggiustamenti di valore negativi”. La nostra ricchezza finanziaria, insomma, ha fondamenta fragili. Siamo ricchi oggi, domani chissà. Non è molto saggio basarci sopra una politica economica. Tantomeno una fiscale.

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