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Contro la manovra di cittadinanza

Luciano Capone

Le favole sulla povertà, il rischio di alimentare il lavoro in nero, le false aspettative, la cultura dell'umiliazione, gli acquisti immorali. Così il M5s è diventato il dominus della manovra e ha trasformato in spazzatura il sogno liberale di Milton Friedman

Roma. Adesso il sussidio gialloverde per la disoccupazione sarà pure “geografico”. “Stiamo pensando, ad esempio, a come modulare le offerte di lavoro sulla base della distribuzione geografica”, ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte qualche giorno fa alla scuola di formazione della Lega. Non si comprende dalla formulazione cosa voglia dire di preciso, ma questa nuova condizionalità insieme alla tante altre poste negli ultimi mesi dovrebbe portare tutti – soprattutto gli economisti e gli studiosi del mercato del lavoro – a una riflessione sugli effetti perversi di un sussidio del genere. Soprattutto considerando che il reddito di cittadinanza, al di là di come la manovra verrà accolta dai mercati e di come andrà a finire la trattativa con Bruxelles, è il provvedimento più importante della prossima legge di Stabilità per impatto e risorse impiegate.

 

Il “reddito di cittadinanza”, quello vero e non questo sgorbio partorito da M5s e Lega, ha diversi aspetti positivi: è un trasferimento monetario, incondizionato, cumulabile ad altri redditi e senza passaggi burocratici. Lo stato dà una somma ai cittadini più bisognosi e questi lo usano per i propri bisogni. Semplice, diretto, immediato. Per queste sue caratteristiche il reddito di cittadinanza – nelle sua varie denominazioni “reddito di base”, “negative income tax”, “reddito minimo universale” – è stato proposto da filosofi ed economisti delle più varie scuole di pensiero, dai più egualitaristi ai più liberali, mettendo d’accordo in una certa misura John Rawls e Friedrich von Hayek: “Assicurare un reddito minimo a tutti, o a un livello sotto cui nessuno scenda, quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società”, scriveva Hayek in Legge, legislazione e libertà. E come l’economista austriaco la pensava un altro premio Nobel “neoliberista”, Milton Friedman, secondo cui i vantaggi di un reddito monetario incondizionato sono evidenti: “Sarebbe orientato specificamente al problema della povertà – scriveva in Capitalismo e libertà –; offrirebbe un aiuto nella forma più utile agli individui, ossia in denaro contante; avrebbe efficacia generale e potrebbe sostituire la congerie di misure attualmente in vigore; opererebbe al di fuori dal mercato”. Insomma il trasferimento di uno stipendio mensile agli esclusi ed emarginati è propugnato anche dai sostenitori dello stato minimo perché è un sussidio non discriminatorio, rispetta le preferenze individuali dei destinatari che possono liberamente farne l’uso che vogliono, non annulla gli incentivi a lavorare per guadagnare di più, è più efficiente dei programmi di assistenza gestiti dalle burocrazie statali.

 

Ecco, il cosiddetto “reddito di cittadinanza” di Lega e M5s è tutt’altra cosa, un impasto di assistenzialismo, statalismo, paternalismo e burocratismo, nato per la stratificazione progressiva di limitazioni e condizionalità. Si è partiti con lo stabilire che il reddito di cittadinanza è una “integrazione al reddito” fino a 780 euro: questo vuol dire che, indipendentemente dal fatto che lavori o meno, un povero guadagnerà sempre 780 euro; vuol dire che se uno guadagna un euro perde un euro di sussidio, significa che i più poveri – quelli che più hanno bisogno di soldi e di entrare nel mercato del lavoro – vengono tassati con una aliquota marginale del 100 per cento. La logica conseguenza sarà l’incremento del lavoro nero: con questo sistema saranno incentivati a creare rapporti di lavoro in nero sia il datore di lavoro (per non pagare i contributi) sia lavoratore (per non perdere il sussidio). Questo meccanismo infernale delega la ricerca del lavoro buono ai centri statali per l’impiego, che dovrebbero trovare a 6 milioni di disoccupati 3 offerte, ovvero 18 milioni di inesistenti posti di lavoro, tutti ben pagati e vicino casa.

 

A ciò il governo ha aggiunto il fatto che il sussidio non sarà monetario, ma verrà erogato attraverso una “social card” che impedirà gli acquisti “immorali”: un’altra condizionalità paternalistica che crea barriere tecnologiche e psicologiche all’accesso e alla fruizione del sussidio. La sociologa del lavoro Chiara Saraceno l’ha definito un “reddito di umiliazione”: “Una riproposizione del solito pregiudizio per cui il povero non è in grado di badare a se stesso”, ha detto al Foglio. Ora si mette pure la “base geografica”, che probabilmente significa “non penalizzare chi rifiuterà come prima offerta di lavoro un’occupazione al di fuori della propria città o regione”. Si tratta di un altro laccio che lega i poveri a un programma assistenziale, l’ennesima zavorra per tenerli bloccati nella propria condizione. Anche vedendo la questione da un punto di vista egualitario, non c’è nulla di positivo in un sussidio del genere: per le classi disagiate non è la strada che porta verso l’emancipazione, ma l’ingresso che conduce in una trappola della povertà. Questo reddito di cittadinanza rappresenta alla perfezione la qualità e la natura post-ideologica delle proposte della maggioranza: non è liberale, non è di destra e non è di sinistra. E’ sbagliato.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali