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Così Fazio ammicca ai gialloverdi mentre Draghi li bacchetta

Stefano Cingolani

L’ex governatore di Bankitalia spiega perché è d’accordo con Savona su deficit, investimenti e abiura del bail-in

Roma. Il commissario europeo Jean-Claude Juncker picchia duro in una intervista a Le Monde: “L’Italia non rispetta la parola data”. Il Fondo monetario dal meeting di Bali boccia l’aumento del deficit pubblico: “Pensiamo che un allentamento fiscale di tale portata in Italia nelle attuali circostanze non sia corretto”, dice Poul Thomsen, capo del dipartimento europeo e se la prende anche con i governi precedenti: “Credo seriamente che per diverso tempo non sia stato seguito il consolidamento di bilancio che ha portato l’Italia a crescere sotto il suo potenziale”. Mario Draghi è più cauto, ma non meno chiaro: il presidente della Banca centrale europea ritiene necessario accelerare le riforme strutturali mentre l’espansione in corso “richiede la ricostruzione di ‘cuscinetti’ fiscali”; ciò è “particolarmente importante nei paesi in cui il debito pubblico è elevato e per i quali la piena adesione al Patto di stabilità e crescita è fondamentale per salvaguardare sane posizioni di bilancio”. Dunque, è il momento di mettere fieno in cascina non di aprire i magazzini.

  

Non la pensa così, invece, il governatore che ha preceduto Draghi alla Banca d’Italia, Antonio Fazio, il quale dà un inatteso sostegno alla manovra economica gialloverde. Innanzitutto, si fida di Giovanni Tria e Paolo Savona: “Sono sicuro che abbiano meditato e valutato a lungo le conseguenze delle decisioni prese”, dichiara in una intervista intitolata “Ricominciare a fare politica economica” rilasciata in occasione della giornata del risparmio che si celebra mercoledì 31 ottobre. Va presa sul serio anche la contestata soglia scelta, al termine di un convulso braccio di ferro, come obiettivo del rapporto tra deficit pubblico e prodotto lordo. Sì, perché quel 2,4 per cento, è meno erratico e casuale di quanto si dica. Fazio ha fatto i conti da macroeconomista (è sempre orgoglioso di avere lavorato, da giovane, alla costruzione del primo modello della Banca d’Italia): “Se il disavanzo si riduce dal 2,4 per cento all’1,6, il debito pubblico sarà inferiore di circa lo 0,6 (0,8 diviso 1,3 che è il rapporto debito pil). Nel contempo il reddito diminuisce o cresce di meno di 1-1,5 punti percentuali  ricevendo un impatto negativo di 0,8 dalla riduzione del disavanzo e amplificandolo per il moltiplicatore in questa fase particolarmente reattivo. In definitiva, si ridurrebbe la crescita e peggiorerebbe il rapporto deficit-pil”. Il governo gialloverde, strapazzato da tutti, riceve così un autorevole bollino verde, inatteso quanto benvenuto.

  

L’ex governatore non sostiene che il debito vada ignorato, come proclamano molti agit-prop grillini e leghisti (in particolare il ciarliero Claudio Borghi). Tuttavia, è vero che in Italia è molto alto il debito pubblico, non quello privato. Le famiglie hanno ancora oggi una elevata quota di risparmio, superiore a quella di altri paesi, che “è naturale investire, più che altrove, nel debito pubblico” il quale va ridotto “in modo virtuoso”, facendo crescere l’economia: “La strategia vincente al riguardo deve essere quella delineata  dal prof. Savona, cioè agire sugli investimenti”. Peccato che il maggior deficit previsto dal governo sia dovuto a spesa corrente non esattamente produttiva (tra pensioni e reddito di cittadinanza). Un’obiezione alla quale Fazio è sensibile, tuttavia per lui agire principalmente sui saldi del bilancio riducendo, cioè, il deficit, “non solo non è efficace, ma è controproducente come si è visto nel corso di questi dieci-quindici anni in cui i governi italiani hanno sempre puntualmente le indicazioni della commissione europea”.

  

Il modello è la politica americana, “iper-keynesiana” dopo la crisi del 2007-2008, con interventi di 3.200 miliardi di dollari, più del 20 per cento del prodotto lordo: l’economia americana già nel 2017 era 12-13 punti sopra il livello del 2008; la Germania è cresciuta dell’8-9 per cento; i Piigs sono ancora sotto di cinque punti, soprattutto a causa della Grecia e dell’Italia. Fazio attacca la mancanza di una politica economica europea: una volta rinunciato al cambio bisogna operare sul bilancio pubblico e sui salari tenendo conto che l’obiettivo deve essere l’occupazione non soltanto la stabilità dei prezzi. “L’euro è e resta un obiettivo intermedio, la cui stabilità deve servire a garantire, strumentalmente, gli altri obiettivi”.

  

L’Italia ha un gap di circa un punto percentuale: se il prodotto lordo dell’Unione europea aumenta del 2 per cento, quello italiano arriva all’1 e così via. “E’ un calcolo che avevo fatto nel 1997, ma non avevo previsto che quando l’Europa non cresce noi andiamo sotto”, racconta Fazio. La causa di questa distanza si chiama produttività: in Italia è troppo bassa mentre il costo del lavoro è troppo alto, ciò vale soprattutto nei confronti della Germania, ma anche rispetto alla media degli altri paesi. La produttività non aumenta allargando la spesa assistenziale, richiede riforme strutturali le quali impiegano tempo e creano per lo più una miriade di conflitti e una vasta opposizione. Ma se la torta s’allarga, anche il consenso alle riforme può diventare maggiore. “Il problema fondamentale è uno soltanto: l’economia non va”, insiste l’ex governatore. La ripresa resta fiacca e limitata a un gruppo di aziende collocate soprattutto nel nord-est. Gli occupati nell’industria si sono ridotti del 14 per cento e le ore lavorate del 17 dal 2007 al 2017, secondo i calcoli della Banca d’Italia. E con l’un per cento non si genera nuova occupazione. Occorre almeno il tre per cento.

  

Si può fare molto, comunque più di quel che si sia fatto finora, “senza rimettere in discussione l’appartenenza all’euro”. E l’ex governatore di Banca d’Italia ha una serie di idee anche sulla governance della zona euro, sulla Bce, sulla vigilanza bancaria che dovrebbe tornare a livello nazionale e sulla necessità di intervenire in modo attivo da parte delle autorità pubbliche, ogni volta che una banca va in crisi. “Negli Stati Uniti si fa così”. Niente bail-in, dunque, altro cavallo di battaglia degli ideologi governativi. “Ci vuole un salto”, conclude Fazio. E in molti a questo punto faranno un salto sulla sedia.

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