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L'equilibrio di Tria tra M5s, Lega e Unione europea

Renzo Rosati

Reddito di cittadinanza e flat tax già dal 2019 senza aumentare debito e deficit. A Bloomberg il ministro dell'Economia dice che il governo avanzerà nel programma, e intanto prende tempo 

Nel difficile, se non impossibile, tentativo di tenersi in equilibrio da una parte tra i suoi due azionisti di maggioranza Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e dall’altra con le regole europee (oltre che con l’obbligo costituzionale di non aumentare il debito per non mettere nei guai gli italiani), Giovanni Tria ha fatto il suo debutto sulla stampa internazionale con un’intervista a Bloomberg. Nella quale spiega come il reddito di cittadinanza grillozzo e il taglio delle tasse leghista “procederanno di pari passo”, e si cominceranno a vedere già dal 2019, ma “saranno ottenuti senza discontinuità con gli obiettivi di bilancio fissati dai governi precedenti”. Quindi continuando a ridurre sia il deficit sia di conseguenza il debito pubblico. “La discontinuità con il passato” spiega il ministro dell’Economia “non sarà sul livello di deficit ma nel mix di politiche che metteremo in atto”. “Nessuna intenzione”, ha anche ripetuto, “di lasciare l’euro, nessuno vuole farlo”.

  

A qualcuno più che equilibrio può apparire equilibrismo. Tria non spiega come farà quadrare il cerchio, ed è in effetti già complicato per il responsabile dei conti pubblici conciliare le esigenze leghiste miranti alla flat tax e all’allentamento delle briglie per la constituency produttiva del Nord, e quelle assistenzialiste dei grillozzi che promettono reddito e pensione per i disoccupati, assunzioni nel pubblico impiego, smantellamento del Jobs Act e reintroduzione dei lacci e delle penalità, giudiziarie e non, per le assunzioni a termine. In realtà Tria, questa è la sensazione, cerca di guadagnare tempo, ritenendo che proprio il fattore tempo sia dalla sua parte. Una prima prova viene dai dati di contabilità pubblica ipotizzati dal ministro per il 2018 e 2019. Quest’anno, dice, dovrebbe chiudersi con deficit e debito già messi per scritto da Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan, rispettivamente all’1,6 per cento e 130,8. Nel 2019 invece potrebbe esserci qualche decimale di deficit in più rispetto allo 0,9 che era l’obiettivo del governo precedente, “ma sempre in un quadro di riduzione del debito”. Tria, come ha già fatto in Parlamento e come prevedono molti altri governi, dà la colpa di un eventuale maggiore deficit al rallentamento dell’economia mondiale, causa la guerra dei dazi e l’affievolirsi del ciclo di ripresa. Nulla dunque che abbia a che fare con le promesse a ripetizione di 5 Stelle e della Lega.

  

Guadagnare tempo significa in realtà essere intimamente convinto che l’alleanza gialloverde non reggerà a lungo – già gli scricchiolii sono vistosi su molti terreni, ultimo l’inchiesta sui conti del Carroccio con i 5 Stelle che danno sfogo all’anima giustizialista. E’ possibile che sia così, e che il ministro, ex stretto collaboratore di Renato Brunetta, pensi (come pensa Brunetta appunto) che Salvini tornerà nell’alveo del centrodestra, magari da azionista di maggioranza, in ogni caso abbandonando se non il sovranismo nazionalista che tanto gli piace, almeno il populismo assistenziale. Queste però sono al momento congetture. Invece, di certo, chi sta in via Venti Settembre sa, ai fini di perpetuare l’equilibrio, di avere due alleati di ferro. Il primo è la ragioneria dello Stato, che mette il via libera su tutti i provvedimenti di spesa, e dove Tria ha trovato (prorogato in extremis dal governo Gentiloni) Daniele Franco, in ottimi rapporti con Mario Draghi, con la Banca d’Italia, con lo stesso Brunetta, e dunque abbastanza sicuro di restare al proprio posto. Il secondo è il vincolo costituzionale a non promulgare leggi senza copertura di bilancio, vincolo che Sergio Mattarella ha più volte detto di volere esercitare senza eccezioni.

  

Anche il Quirinale può essere un alleato di Tria, dopo aver bloccato in modo fragoroso la nomina dell’euroscettico Paolo Savona. Dunque il quadrilatero Draghi, Franco, Mattarella, Europa rendono sufficientemente stabile, se non inamovibile, il ministro dell’Economia. Del resto se saltasse lui, o se decidesse di andarsene, quando durerebbe il governo? Neppure un minuto, lo shock dei mercati sarebbe violentissimo, le ripercussioni politiche pure, e questo lo sa Tria ma lo sanno anche Salvini e Di Maio. Finora le parole del ministro hanno sempre agito da Valium dello spread, e neppure l’intervista a Bloomberg pare aver cambiato le cose. Lady Spread ha sì fatto ieri qualche capriola, un più 2,5 per cento, ma in parallelo con gli altri paesi periferici dell’euro.

  

Certo, che ogni giorno che passa sia un giorno guadagnato non è la migliore strategia economica. Egualmente il titolare dell’Economia sa che dovrà fare concessioni in fatto di nomine (come del resto Padoan con Matteo Renzi). Ma in Italia il ministro dell’Economia non è mai stato un super-eroe: non lo fu Giulio Tremonti con Silvio Berlusconi ed i suoi alleati, né Tommaso Padoa Schioppa con Romano Prodi. E neppure Padoan. Figuriamoci un economista liberale in un governo populista, nel quale è entrato solo per volere del capo dello Stato.