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Chi ha paura del debito?

Marco Fortis

Appunti per fare valere nella riforma dell’Eurozona le peculiarità (non soltanto negative) del nostro fardello

Gli economisti Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales si sono fatti promotori sul “Corriere della Sera” del 22 giugno scorso di una lettera al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, allo scopo di condividere con lui il loro pensiero sulla delicatezza dell’attuale fase di discussioni relative alla riforma economica dell’Eurozona. Iniziativa apprezzabile perché troppe volte in passato l’Italia è stata assente nei momenti cruciali mentre si decidevano le regole dell’area euro, ad esempio quando furono fissati i pilastri del “bail in” delle banche. Oggi la partita è perfino più grande che in passato perché le nuove regole potrebbero decidere addirittura dell’eventuale “bail in” degli Stati.

 

I tre economisti hanno illustrato in maniera più che esauriente il loro punto di vista sulla proposta di riforma franco-tedesca, soffermandosi in particolare sul bilancio dell’Eurozona, sull’assicurazione comune alla disoccupazione, sul Fondo di stabilità. Non torneremo pertanto qui su tali aspetti. Ne svilupperemo invece un altro partendo da un passaggio della loro lettera quando essi sottolineano l’importanza di “affermare il principio che i criteri di sostenibilità del debito devono basarsi su variabili storiche (per esempio il bilancio primario degli ultimi anni) e non prospettiche, per evitare che una paura del mercato si trasformi in una condanna, come successe all’Italia nel 2011. Questo è l’aspetto più insidioso dove l’Italia deve fare valere il suo punto di vista”.

 

Ci fa molto piacere che questo principio sia stato sottolineato con tanta enfasi perché per anni abbiamo cercato di portarlo all’attenzione dell’opinione pubblica, degli economisti e dei nostri governi trovando nelle diverse occasioni sensibili al riguardo soltanto il ministro Tremonti e in epoca più recente il ministro Padoan, che ne ha fatto un perno delle sue negoziazioni con Bruxelles. Il debito pubblico italiano, infatti, è molto grande in cifra assoluta e in rapporto al pil ma è peculiare nel panorama internazionale in quanto è certamente più sostenibile di quello di altri paesi che, pur avendo valori del debito/pil inferiori al nostro, presentano ben più gravi elementi di criticità. Tra questi elementi critici citiamo, primi fra tutti, una eccessiva dipendenza dall’estero per il finanziamento del debito stesso e una limitata ricchezza finanziaria privata interna che non consente a cittadini, imprese e soprattutto istituti di credito e di investimento di sostenere una quota rilevante del debito nazionale. E’ il caso non solo della Grecia ma anche di Portogallo e Irlanda. Nel 2017, ad esempio, i non residenti hanno finanziato il debito portoghese per il 54 per cento e quello irlandese per il 60 per cento. Mentre la quota dell’Italia è stata pari solo al 32 per cento contro il 50 per cento di Germania e Francia. In valore assoluto a fine 2017 il debito pubblico finanziato da non residenti era di 730 miliardi di euro in Italia, di 1.036 in Germania e di 1.106 in Francia. Se a questo dato aggiungessimo la frazione di debito detenuta dalle banche centrali nazionali per conto della Bce (cifra cresciuta enormemente con il Quantitative easing e pari nell’ottobre 2017, per esempio, a 349 miliardi di euro di debito italiano a carico di Banca d’Italia ma anche a 319 miliardi di debito tedesco a carico della Bundesbank), la quota complessiva di debito detenuta da stranieri e dalla propria banca centrale per conto della Bce resterebbe per l’Italia comunque tra le più basse in Europa: inferiore al 50 per cento per l’Italia, vicina al 65 per cento per la Germania e vicina al 70 per cento per la Francia. Per converso, l’Italia ha una elevata capacità (sia pure non eterna) di sostenere il proprio debito con acquisti interni consentiti dalla elevata ricchezza finanziaria netta delle famiglie (e dei soggetti nazionali che la custodiscono, come banche, fondi, assicurazioni): ricchezza pari nel 2016 al 193 per cento del pil in Italia, al 163 per cento in Francia, al 130 per cento in Germania, al 119 per cento in Portogallo, al 118 per cento in Spagna, all’81 per cento in Grecia e al 76 per cento in Irlanda.

 

Accanto a questi parametri, che permettono di valutare meglio la sostenibilità dei debiti pubblici, ve sono altri non meno rilevanti, come la posizione finanziaria netta complessiva verso l’estero di una nazione (cioè l’insieme del suo indebitamento estero pubblico e privato e degli investimenti diretti in entrata e uscita). Nuovamente, questo è un parametro molto critico per paesi come Spagna (meno 81 per cento del pil nel 2017), Portogallo (meno 105 per cento), Grecia (meno 141 per cento) e Irlanda (meno 156 per cento). Mentre la posizione finanziaria netta dell’Italia, dopo essere scesa di ben 16 punti negli ultimi quattro anni grazie alla crescente competitività di una economia reale basata sulla seconda manifattura d’Europa e a un imponente surplus di bilancia commerciale, nel 2017 è stata negativa in rapporto al pil solo per il 7 per cento, contro il 20 per cento, ad esempio, dei nostri vicini francesi.

 

A tutto ciò si aggiunga il fatto che molte grandi economie con un debito pubblico alto, come la Spagna, la Francia, gli Stati Uniti e il Giappone, non riescono da tempo immemorabile a generare un bilancio primario dello Stato positivo prima del pagamento degli interessi. Cosa che l’Italia invece fa regolarmente sin dal 1992 con la sola eccezione di uno sporadico e piccolo deficit primario nel 2009, nel pieno della grande crisi mondiale dei mutui sub prime. Durante gli ultimi due governi precedenti l’attuale, nel quadriennio 2014-2017, l’Italia ha generato il quarto miglior avanzo primario cumulato dell’Unione europea, pari al 6,1 per cento del pil, preceduta solo da Malta, Germania e Lussemburgo. Mentre Regno Unito, Francia e Spagna, per contro, hanno fatto registrare pesanti deficit primari.

 

Se fossimo maggiormente consapevoli e capaci di rappresentare adeguatamente questa realtà comparata del nostro debito con cifre e tabelle, potremmo di sicuro negoziare meglio con l’Europa le regole future dell’economia. Attenzione però. Ciò non significa assolutamente sottovalutare la gravità dei conti pubblici italiani, che il nuovo governo in carica non dovrebbe prendere sottogamba inseguendo avventurosi tagli di tasse o misure assistenziali chiaramente insostenibili con la situazione delle nostre finanze.

 

Proprio lo sforzo sovrumano che l’Italia sta sostenendo da oltre due decenni per generare avanzi primari statali record, con cui pagare l’enorme mole di interessi che gravano sul nostro debito pubblico, dovrebbe costituire un monito per chiunque pensi di peggiorare a cuor leggero i conti pubblici del paese. Basti pensare che in base alle statistiche Eurostat l’Italia ha generato dal 1995 al 2017 circa 694 miliardi di euro di surplus primario cumulato dello Stato a valori correnti: una cifra record, unica al mondo, che è servita per pagare in parte (per circa il 40 per cento) la bellezza di 1.786 miliardi di euro di interessi cumulati sul debito (cioè una cifra pari a oltre un anno di pil).

 

Ai cittadini italiani e a chi li governa devono perciò essere ben chiare due cose. La prima è che il nostro debito in valore aumenta ogni anno dagli inizi degli anni 90 unicamente perché non riusciamo a pagare con l’avanzo primario tutti gli interessi annui sul debito precedente. In queste condizioni e dati gli alti livelli raggiunti dal debito stesso, è chiaro che per l’Italia non ci sono ormai più spazi per sforamenti del deficit, perché ci esporrebbero alla inesorabile punizione dei mercati. Possiamo al massimo chiedere un po’ di flessibilità, come abbiamo fatto negli anni scorsi.

 

La seconda cosa da capire, ancor più importante, è che per far scendere il rapporto debito/pil, specie se alto come il nostro, serve un delicatissimo equilibrio: infatti, la somma di crescita nominale del pil e avanzo statale primario deve essere superiore alla quota degli interessi da pagare. Con queste premesse e con un debito/pil del 131,8 per cento faticosamente stabilizzato dai governi Renzi e Gentiloni (dopo essere aumentato di oltre 30 punti di pil nei 6 anni precedenti), l’unica politica economica possibile per il nuovo esecutivo giallo-verde, se non vuole portarci al default, è il “sentiero stretto” già imboccato da Padoan (che il ministro Tria ha di certo ben in mente). Magari con qualche piccola variante, tanto per salvare la faccia, della criticata ma fruttuosa (per la ripresa e la stabilizzazione dei conti) Renzinomics. Con buona pace per le roboanti promesse della campagna elettorale.

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