Di Maio incontra i rappresentanti delle azienda Deliveroo, JustEat, Foodora, Domino's pizza e Glovo (foto LaPresse)

I rider, come bazooka di Di Maio, sono un'arma già spuntata

Renzo Rosati

Il ministro è saltato sulla bike ma Foodora l’ha messo a terra. E ormai siamo al “tavolo di contrattazione”

Roma. Alla prima prova da ministro del Welfare, carica che somma a quella di vicepremier e responsabile dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio ha prima imbracciato il bazooka, poi ha sparato un tappo come con i fucili giocattolo. E il “decreto dignità” con il quale aveva annunciato l’assunzione a contratto fisso dei rider, e in generale dei lavoratori della gig economy (che include le piattaforme digitali per le consegne a domicilio), si è trasformato ieri, dopo l’incontro con le aziende del settore, nel più classico e italiano “tavolo aperto di contrattazione”. L’esito, che fa da preludio alla ben più impegnativa vertenza dell’Ilva, va cercato nella sempre più esplicita concorrenza tra i due vice di Giuseppe Conte.

 

Ansioso di non farsi scavalcare in visibilità da Matteo Salvini, che il 3 giugno da Pozzallo in Sicilia aveva anticipato la “guerra al business dell’immigrazione”, che poi ha dato origine al blocco della Aquarius e alla chiusura dei porti per le navi delle ong, insomma un caso europeo, Di Maio aveva deciso 24 ore dopo di saltare sulla prima vertenza a tiro, e l’ha scovata in quella dei fattorini in bici o scooter di Foodora. Dal 2016 il collettivo Deliverance Project che afferma di rappresentarli ne reclama l’assunzione come lavoratori dipendenti; ma l’ultimo a dargli torto è stato l’11 aprile il tribunale di Torino, respingendo la causa promossa da sei rider e non riconoscendo lo status della subordinazione ma quello della collaborazione autonoma come previsto dall’articolo 2 del Jobs Act.

   

Il loro lavoro, che per Foodora riguarda un migliaio di rider, si svolge infatti in prevalenza in due fasce orarie, il pranzo e la cena, e non comporta obblighi di esclusiva. Nonostante questo fresco precedente, Di Maio ha deciso comunque di portarsi avanti. E il 4 giugno, mentre Salvini imperversava sui migranti, ha appunto spianato il bazooka convocando i rider ai quali ha sventolato sotto il naso un intervento per decreto (ma i 5 stelle non avevano promesso di bandire i decreti?) sulle leggi per il lavoro, intitolato “Norme in materia di lavoro subordinato anche tramite piattaforme digitali, applicazioni e algoritmi”. Difficilmente il testo avrebbe passato il vaglio del Parlamento e dei ricorsi alla giustizia amministrativa (campo nel quale Conte dovrebbe essere uno specialista): per esempio l’articolo 1 prevede che si sia considerato dipendente “pure nei casi nei quali non vi sia la predeterminazione dell’orario di lavoro e il prestatore sia libero di accettare la singola prestazione richiesta”, frase seguita da un’oscura “se vi sia la destinazione al datore di lavoro del risultato della prestazione e se l’organizzazione alla quale viene destinata la prestazione non sia la propria ma del datore di lavoro”. 

    

Concetti che se tradotti in legge, anzi in decreto, avrebbero costituito un precedente per l’immediata trasformazione in assunzioni di centinaia di migliaia di collaborazioni autonome. Ma Di Maio ci ha imbastito una campagna, appunto, sulla dignità, con promesse di sradicare il lavoro precario, e con sullo sfondo quello che è probabilmente il vero obiettivo: iniziare a smantellare il Jobs Act. Il risultato immediato è stato il classico boomerang. Gianluca Cocco, ad di Foodora Italy, succursale della casa madre tedesca a sua volta del gruppo Delivery Hero presente in 40 paesi, ha annunciato che “se fossero vere le anticipazioni dovrei concludere che il nuovo governo ha un solo obiettivo: fare in modo che le piattaforme digitali lascino l’Italia. Quella che filtra è una demonizzazione che ha dell’incredibile, quasi medievale”.

       

Secondo uno studio della Fondazione Debenedetti i lavoratori della gig economy sono oltre 700 mila, solo 200 mila dei quali lo fanno come attività esclusiva. Dunque Di Maio poteva cogliere l’occasione per dare seguito a un proposito, una volta tanto giusto, contenuto al punto 13 del “contratto del cambiamento”: quello nel quale oltre a prevedere una retribuzione minima oraria si riconosce che è stato un errore la cancellazione totale dei voucher, ipotizzandone la reintroduzione dove necessario. Ma di fronte alla sollevazione di Foodora il ministro si è rifugiato, as usual, nel “non cederemo ai ricatti!”. Per poi, appunto, una volta incontrati oltre a Foodora anche Just Eat, Deliveroo, Domino’s Pizza e Glovo, annunciare il classico “tavolo di contrattazione, e chissà che non si arrivi al primo contratto nazionale”. Già, chissà. Neppure la Dc.