Pierre François Eugène Giraud (1806-1881), “La dogana italiana al Sempione”, 1880 (collezione privata)

Lo strazio del dazio

Stefano Cingolani

Dall’universo chiuso del feudalesimo a oggi. La svolta di Trump ha rilegittimato una politica che sembrava il residuo di un triste passato

Il Duca di Maddaloni, deputato al neonato Parlamento Italiano, pronuncia il 6 novembre 1861 a Torino un discorso tanto borbonico quanto appassionato sui mali che affliggono il Mezzogiorno: “Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici per concorrenze subitanee, intempestive, impossibili a sostenersi e per lo annullamento delle tariffe e per le mal proporzionate riforme”. Il morbo che i piemontesi vogliono diffondere nell’ex Regno delle Due Sicilie ha un nome preciso: concorrenza o come si diceva allora libertà dei commerci. E la miccia che a suo dire faceva scattare la bomba economica e sociale, era la caduta dei dazi che metteva la debole manifattura meridionale e la stessa agricoltura nella incresciosa situazione di dover competere con le merci e le messi del nord.

 

In Inghilterra non si erano ancora rimarginate le ferite attorno alle leggi sui grani che avevano spaccato il Parlamento e il paese tra liberisti e protezionisti. Introdotte nel 1815, mentre Wellington sconfiggeva Napoleone a Waterloo, per sostenere i proprietari terrieri colpiti dai cereali più a buon mercato provenienti dalle colonie britanniche, furono abolite nel 1846 dopo una lunga battaglia politica e intellettuale. Aristocratici e contadini combattevano insieme – entrambi a favore dei prezzi elevati con i quali pensavano di salvaguardare un intero sistema di produzione basato sul latifondo – contro la borghesia industriale e la classe operaia delle città che invece volevano prezzi bassi per sostenere il potere d’acquisto dei salari senza intaccare il profitto come scrisse David Ricardo fornendo ai Whig, i liberali, gli strumenti teorici per mettere alla corda i Lord e il Partito conservatore. L’ironia della politica volle che a favorire l’abolizione delle Corn Law fosse proprio il duca di Wellington, un aristocratico certo, e tuttavia consapevole degli interessi non solo della propria classe, ma del suo paese che s’avviava a diventare egemone in occidente. Britannia first portava con sé il liberismo, America first riesuma il protezionismo. A dimostrazione che il processo storico è tutt’altro che lineare.

 

Dai dazi i signori ricavavano le entrate principali per alimentare i loro castelli, le necessità del feudo, il loro consumo opulento

Se c’è un barbarico relitto in economia, questo non è tanto l’oro come sosteneva John Maynard Keynes (fatto santo a destra e non solo a sinistra nell’Italia neopopulista), quanto il dazio che ci riporta al mondo racchiuso e oscuro del feudalesimo, ai secoli in cui l’economia, quando cresceva, aumentava di zero virgola e la società riposava rasoterra tra il barone, il vescovo e il cavaliere. Dall’alto, l’imperatore, il papa e gli eserciti di ventura facevano in modo di conservare, non senza conflitti, questo equilibrio. Dai dazi i signori ricavavano le entrate principali per alimentare i loro castelli, le necessità del feudo, il loro consumo opulento (relativamente all’epoca). Tasse sull’ingresso delle merci esistevano anche ad Atene o nell’epoca romana, soprattutto durante l’impero, in genere si confondevano con le imposte di pedaggio e gli introiti erano incassati dalle città per alimentare il loro bilancio, non quello dello stato che semmai provava a taglieggiare i proprietari. Sono gli arabi a diffondere di nome e di fatto le dogane (dohana nei paesi a dominazione araba come la Spagna e la Sicilia, viene da diwan che era il libro dei conti) a difesa di frontiere spesso minuscole e quasi sempre porose, ma è la frammentazione dell’Europa feudale a moltiplicare le barriere fiscali: chi navigava lungo il Reno ne incontrava ben 64; ancor di più nel tracciato del Danubio. La nuova popolazione dei borghi, la borghesia appunto, composta di artigiani, mercanti, banchieri, si sente soffocata e spinge per semplificare e poi ridurre i dazi, fino a creare delle zone basate su accordi di libero scambio. La Lega Anseatica che andava dall’Olanda ai paesi baltici, attraverso le città libere tedesche come Amburgo, Brema, Lubecca, è il primo grande esempio che anticipa il Nafta e i moderni trattati sui commerci. La Hansa Bund dura fino al ‘700 e non è certo un caso se le aree economiche e le città che ne facevano parte sono diventate le più ricche e le più avanzate d’Europa. Il rinascimento economico, sociale, culturale, nasce in Olanda così come nei comuni italiani ai quali manca, però, una cornice e una infrastruttura più generale che consenta loro di superare i limiti delle mura urbane.

 

“Lo suo particulare” analizzato da Francesco Guicciardini e che tanto irritava Niccolò Machiavelli, aveva nei dazi la proiezione perfetta. Secondo Giovanni Villani, storico e mercante, a Firenze, nel 1338, il dazio d’entrata e di uscita dalla città rendeva 90.200 fiorini d’oro ed era il maggiore cespite delle finanze comunali. Protette dalle corporazioni sono anche le manifatture, congelato è il mercato del lavoro perché viene impedito di cambiare bottega o mestiere.

 

Gli americani impiegano l’85 per cento del loro reddito per comprare beni e servizi nazionali. Migliorate le ragioni di scambio per l’Italia

Il protezionismo non finisce con il Rinascimento, anzi si proietta in avanti fino all’età moderna (si pensi alla Francia e a Colbert). Eppure proprio le aree d’Europa dove è prevalsa una maggiore apertura sono quelle in cui il benessere è più esteso e meglio distribuito tra le classi sociali. Crescita ed equità, tanto per dirlo con il binomio oggi in voga, sono direttamente proporzionali alla libertà di commercio. L’Italia non era solo divisa politicamente, ma anche economicamente; dazi, gabelle e dogane erano i muri che impedivano di prendere davvero il volo persino a Firenze nonostante tutto il suo splendore. Fa eccezione Venezia, che pure si serviva di una vasta gamma di protezioni, però aveva creato un suo proprio impero commerciale e politico, una sorta di commonwealth. In molti cercarono di spezzare i suoi legami mercantili che erano la base stessa della sua potenza, ma vennero sempre sconfitti.

 

Il colpo più duro fu inferto nel XV secolo da re Sigismondo di Lussemburgo, principe elettore di Brandeburgo, re dell’Ungheria della Boemia, della Croazia, re dei Romani (cioè dei Germani), incoronato imperatore nel 1433. Il monarca cercò di organizzare un gigantesco blocco commerciale per interrompere i legami con il continente e soprattutto con l’oriente attraverso il mar Nero, utilizzando non solo le armi, ma i mercanti tedeschi per i quali Venezia rappresentava una specie di università d’economia, dove questi trascorrevano il loro periodo di tirocinio apprendendo l’arte del commercio, la ragioneria e anche l’idioma locale, che all’epoca veniva considerata la lingua internazionale del commercio. Finì malissimo per Sigismondo, nonostante avesse il sostegno di Genova. I veneziani, alleati con gli angioini del regno di Napoli, disponevano di mezzi finanziari che superavano le risorse e le possibilità del re magiaro: erano in grado di ingaggiare e pagare i più prestigiosi mercenari dell’epoca, come i fratelli Carlo e Pandolfo Malatesta (signori di Rimini, Bergamo e Brescia); di comprare l’appoggio della nobiltà friulana; di corrompere i comandanti degli eserciti ungarici che avevano trovato sostegno persino da parte dei mongoli dell’Orda d’oro i quali attaccarono alcune colonie veneziane. Il conflitto sfociato in guerre aperte che coinvolsero anche il ducato di Milano durò con fasi alterne vent’anni, durante i quali però i legami mercantili con Venezia non si interruppero mai: troppo decisivi erano per quel mondo che andava dall’Europa all’Asia centrale, dal Mediterraneo fino all’India e alla Cina. I primi a non rispettare il blocco furono i mercanti e i principi della Germania. Tanto che il fondaco dei Tedeschi venne persino ampliato e rafforzato nella prima metà del ’400. Il fatto è che la prosperità dell’intera Europa dipendeva da Venezia e nessuno se la sentì di rimetterla in discussione nonostante le mire e le prepotenze di Sigismondo, il quale pretendeva che i suoi interessi venissero prima di tutto. Se la storia è davvero maestra, questa vicenda ha molto da insegnare anche a noi.

 

Saranno i philosophes e gli economisti del Settecento, alfieri del libero commercio, a battersi per l’unificazione doganale (l’Austria è uno dei primi paesi a realizzarla). La Prussia ha resistito a lungo legata al vecchio protezionismo fino alla creazione dello Zollverein, l’unione doganale. Su questo ritardo ha influito senza dubbio il peso politico degli Juncker, i grandi proprietari terrieri che formavano il nerbo della classe dirigente. Lo stesso si può dire dell’Italia, dove baroni e agrari restarono ancora a lungo i ceti sociali più potenti, e non solo nel Mezzogiorno. Il mondo agricolo, del resto, è quello che ancor oggi più si oppone alla libertà dei commerci: la politica agricola dell’Unione europea è l’ultima frontiera del grande protezionismo. O almeno lo era, perché adesso sembra che il vento sia cambiato.

 

Le aree d’Europa dove è prevalsa una maggiore apertura sono quelle in cui il benessere è più esteso e meglio distribuito tra le classi sociali

La svolta di Trump ha senza dubbio rilegittimato una politica che, seppur praticata ancora ampiamente, sembrava davvero il residuo di un triste passato. La reazione americana al crollo di Wall Street nel 1929, aumentando i dazi l’anno successivo, ha contribuito in modo fondamentale a trasformare la crisi in una lunga depressione sfociata nella Seconda guerra mondiale. Molti sostengono che in realtà Trump abbia introdotto un nuovo unilateralismo, o meglio un personalismo basato su negoziati faccia a faccia, che spiazza senza dubbio tutti gli organismi multilaterali come l’Organizzazione mondiale del commercio, ma non è detto che produca una vera ondata protezionista. Si va avanti caso per caso, tra regole ed eccezioni, con continui bracci di ferro. Può darsi. E non c’è dubbio che anche gli europei, non solo i cinesi, hanno molti peccati da farsi perdonare. Tuttavia il cambiamento più profondo sembra essere culturale prima ancora che economico.

 

La variabile fondamentale per stabilire la ricchezza di una nazione aperta al commercio internazionale è il rapporto tra il prezzo del bene esportato rispetto a quello importato, chiamato ragione di scambio. Un maggiore prezzo relativo delle esportazioni significa che il paese può importare di più per ciascun bene esportato, un miglioramento delle ragioni di scambio aumenta il benessere del paese e viceversa.

 

E’ diventato senso comune sostenere che le importazioni (oggi quelle cinesi, negli anni 80 giapponesi, negli anni 90 europee e così via) peggiorano le ragioni di scambio riducendo i salari, l’occupazione, il tenore di vita. In realtà questo dogma dei neo-protezionisti non trova conferma. Tutti gli indicatori dicono che le variazioni delle ragioni di scambio dei paesi ad alto reddito, Stati Uniti compresi, sono state positive dal 1980 al 2008, mentre quelle dei paesi in via di sviluppo, dell’Asia sono state negative: meno 1,4 per cento per la Cina. La crisi del 2008 ha imposto uno stop momentaneo, ma non ha invertito la tendenza di lungo periodo del commercio mondiale.

 

Sigismondo, imperatore nel 1433, cercò di organizzare un gigantesco blocco commerciale che danneggiava Venezia: gli andò male

Il modello generale del commercio internazionale spiega che la crescita è in genere sbilanciata soprattutto a causa del progresso tecnologico, il quale nel lungo periodo è il principale responsabile delle variazioni nell’occupazione e nei redditi da lavoro, penalizzando i lavoratori dei settori più arretrati. Gli Stati Uniti sono cresciuti moltissimo nell’alta tecnologia e nei servizi che hanno esportato in tutto il mondo, meno in settori come il tessile, i macchinari, l’industria pesante dove importano molto, non tanto dai paesi in via di sviluppo, ma dall’Europa, dal Giappone, dalla Corea del Sud e dalla Cina. L’economia a stelle e strisce, d’altra parte, è più chiusa di quella europea o giapponese, l’enorme mercato interno limita la quota del commercio internazionale sul prodotto lordo a meno di un quinto. In generale, i paesi spendono ancor oggi la maggior parte del loro reddito marginale in prodotti nazionali. I cittadini americani impiegano l’85 per cento del loro reddito per comprare beni e servizi nazionali. I costi di trasporto, i dazi e le altre barriere commerciali condizionano i consumatori e introducono nello stesso tempo forti distorsioni a favore di alcuni settori e alcuni gruppi sociali.

 

Le ragioni di scambio sono migliorate anche per l’Italia. Il boom delle esportazioni ha prodotto un attivo della bilancia commerciale pari a tre punti di prodotto lordo (doppio rispetto a quello cinese, secondo solo a quello tedesco tra i grandi paesi industrializzati). Nemmeno le sanzioni contro Mosca, nonostante quel che viene detto propagandisticamente dagli italici putinisti, hanno fermato il flusso verso l’estero (l’interscambio con la Russia è in nettissimo miglioramento). E non si tratta di vendere spaghetti o pomodori. L’agroalimentare conta per appena il dieci per cento su un valore che lo scorso anno ha raggiunto i 450 miliardi di euro mentre il valore dei beni importati si è fermato a 400 miliardi. Per lo più si tratta di componenti per l’industria, macchinari, merci per produrre altre merci, veicoli, prodotti farmaceutici.

 

Pur tenendo conto di alcune debolezze importanti (come l’elettronica e l’informatica) l’Italia si colloca nel cuore del sistema industriale, compete con la Germania in Europa e con il Giappone nel resto del mondo. Ma allora perché imprenditori che vivono grazie alle frontiere aperte danno il loro consenso a forze politiche che vogliono alzare nuove barriere? I dazi di Trump riaprono un grande interrogativo sul futuro dell’Ilva e i grillini che la vogliono chiudere per farci delle piscine vanno in sollucchero. La Lega si batte per togliere le sanzioni a Putin, ma nello stesso tempo pretende di imporre dazi e tariffe punitive contro la Cina e i paesi asiatici, verso i quali si indirizza il nuovo flusso di esportazioni italiane. Contraddizioni in seno al popolo, una famelica ricerca di consensi immediati, una errata analisi dei mali italiani, ricette messe insieme da guru improvvisati e stregoni celtici? Nel cercare le ragioni della sconfitta, anche la sinistra si pente di non aver cavalcato il bisogno di protezione di ceti sociali lasciati indietro dalla globalizzazione, come i personaggi di Giovanni Verga, i Vinti, travolti dall’onda del Progresso. Con la produttività, si sente dire, si perdono solo voti. Può darsi. Ma senza non si guadagna nemmeno un centesimo né un posto di lavoro.

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