Una nave porta-container nel porto di Singapore (foto LaPresse)

Il “metodo Trump” è inedito, e il business si sposta a oriente

Gianni Castellaneta

Da Singapore, l’Unione europea sembra ancora più piccola e bloccata nelle sue contraddizioni e rivalità interne

Alla fine, l’incontro tanto atteso è avvenuto: Donald Trump e Kim Jong-un si sono stretti la mano e hanno firmato un comunicato congiunto suggellando un evento che, comunque la si pensi, ha un significato davvero storico. E’ stata infatti la prima volta che un presidente degli Stati Uniti ha incontrato il leader della Corea del nord, probabilmente l’ultimo totalitarismo ancora sopravvissuto sul nostro pianeta. Un meeting che è stato reso possibile principalmente grazie alla personalità estremamente accentratrici e imprevedibili dei due leader: seppure al comando di due Stati tra loro agli antipodi, è impossibile non notare le somiglianze tra i due a livello di gestione del potere e tecniche di comunicazione. Per entrambi, ha giocato un ruolo determinante un aspetto molto importante del loro carattere che si rivela durante i negoziati, ovvero la convinzione di riuscire a piegare l’interlocutore a proprio vantaggio forti delle proprie ragioni e del carisma esercitato.

 

Il vertice che si è svolto ieri a Singapore va analizzato su due piani diversi. Il primo, che paradossalmente è forse quello meno importante, è rappresentato dal risultato dell’incontro: alla vigilia Trump aveva gonfiato le aspettative oltre misura affermando che la conversazione con Kim sarebbe durata meno del previsto e che sarebbe stato molto facile trovare un accordo soddisfacente. Del resto, il testo della dichiarazione congiunta firmata dai due leader non va oltre una mera dimostrazione di good will nei confronti di una progressiva rinuncia al nucleare, senza però indicare una precisa timetable per lo smantellamento né concedere aperture sulla localizzazione e l’ispezione dei siti nordcoreani. La vaghezza del comunicato non è sufficiente per “cantare vittoria” – la preoccupazione di Giappone e Corea del Sud non potrà certo diminuire – anche se nel breve periodo servirà ad allontanare un intervento militare e lascia la porta aperta per una continuazione dei negoziati.

 

Tuttavia, non sarebbe stato realistico pensare che Pyongyang avrebbe sottoscritto una rinuncia totale, immediata e senza condizioni al proprio programma nucleare. Il mantenimento dell’atomica è per Kim l’unica assicurazione sulla sua sopravvivenza, e persino un leader apparentemente irrazionale come lui sa bene che un’apertura incondizionata alle richieste statunitensi non avrebbe senso se non accompagnata da rassicurazioni di altro tipo. Non è infatti detto che dopo la presidenza Trump (se saranno quattro oppure otto anni è ancora presto per dirlo) i suoi successori alla Casa Bianca confermeranno l’approccio bilaterale e puramente mercantilista adottato da The Donald. In altre parole, se l’America di oggi è disposta a chiudere un occhio su rispetto della democrazia e dei diritti umani in nome dei propri interessi economici e strategici, chi può assicurare a Kim che un domani gli Stati Uniti non tornino a essere veri campioni dei valori occidentali?

 

Il mutamento dell’asse geostrategico era già iniziato con Obama, che aveva spostato l’attenzione verso il Pacifico sulla base di considerazioni sociopolitiche. Trump giustifica la sua azione con ragionamenti prettamente economici. Un’attenzione che fa piacere ai paesi emergenti del sud-est asiatico

 

Ecco dunque come si spiega la necessità di un approccio graduale, che nel tempo può certamente portare a un disgelo reale con la Corea del nord ma che nell’immediato difficilmente potrà produrre novità epocali come ad esempio un regime change in senso democratico.

 

Il secondo piano di analisi è invece legato a considerazioni di carattere strutturale e di lungo periodo e che coinvolgono i profondi cambiamenti di carattere geopolitico che stiamo attraversando. La partenza anticipata di Trump dal G7 di Charlevoix – vero e preoccupante fallimento dell’approccio multilaterale orchestrato fino a pochi anni fa dalle potenze occidentali – per volare a Singapore testimonia lo spostamento dell’asse geostrategico dall’Atlantico al Pacifico e il posizionamento dell’Asia al centro delle relazioni internazionali nei prossimi anni. Se questo mutamento era già iniziato con Barack Obama, che aveva spostato il fuoco dell’attenzione verso il Pacifico sulla base di considerazioni sociopolitiche (essendo lui stesso nato alle Hawaii e cresciuto in Indonesia), Trump giustifica la sua azione con ragionamenti prettamente economici. Questo deciso interessamento per l’Asia da parte degli Stati Uniti non può che fare piacere agli Stati emergenti del sud-est asiatico, che potranno beneficiare da un maggiore coinvolgimento nell’area da parte di Washington. Dall’altro lato, però, sarà compito degli Usa rassicurare in maniera adeguata il Giappone e la Corea del Sud che, nonostante l’apertura di credito dimostrata dal presidente Moon al suo “ingombrante” vicino del Nord, non può abbassare la guardia sulle eventuali velleità aggressive di Pyongyang. E poi, non va dimenticato il più grosso elefante nella stanza, ovvero la Cina che, in caso di una riunificazione tra le due Coree, potrebbe vedere drasticamente ridotta la propria influenza nell’area. Insomma, archiviate le questioni con la Corea del nord, lo scontro di domani nella regione potrebbe essere proprio tra Washington e Pechino. Nel frattempo, l’Europa continua a rimanere alla finestra: da Singapore l’Ue appare ancora più piccola, bloccata nelle sue contraddizioni e nelle sue rivalità troppo “provinciali”. Forse sarebbe davvero il caso di riportare la Russia sui principali tavoli negoziali e di perseguire un’Europa più forte e più equa per avere un completo riequilibrio del potere globale, che consentirebbe all’Occidente di riprendere il suo posto nel mondo.

 

Merita infine un’ultima considerazione il cosiddetto “metodo Trump”, che non risponderà forse ai canoni della diplomazia condotta “in punta di fioretto”, ma che non sembra privo di una sua efficacia. E’ possibile ipotizzare che The Donald, galvanizzato dal successo con Kim, cerchi di replicare una simile trattativa con l’Iran? Le condizioni di partenza – e soprattutto il contesto – sarebbero in questo caso molto diversi: se però un eventuale tentativo dovesse andare a segno, allora nessuno potrebbe sottrarre a Trump il Nobel per la Pace che fu assegnato un po’ troppo frettolosamente al suo aborrito e invidiato predecessore.