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Unire il sacro e il mercato?

Giorgio Arfaras

Il bivio tra economia aperta e paure del popolo. La tentazione dello stato onnipotente e il cemento dei valori

Siamo a un bivio che ricorda gli anni successivi la Prima guerra. Oscilliamo di nuovo fra la libertà economica e il corporativismo – secondo la classificazione di Edmund Phelps. Per libertà economica vanno intese le innovazioni che si diffondono senza freni, mentre per corporativismo si intende la messa in atto di freni alle innovazioni.

 

A ben guardare i freni alla libertà economica e quindi alle innovazioni non erano una novità nemmeno dopo la Prima guerra. Abbiamo l’inventore di un nuovo tipo di vetro (“excogitato vitri temperamento, ut flexile esset”) che lo propone all'imperatore Tiberio. Quest’ultimo, preoccupato per la caduta che si sarebbe avuta dei prezzi dei minerali con cui si producevano i vetri con le vecchie tecnologie, da bravo corporativista, proibisce la diffusione di quelle nuove. Un paio di secoli fa quando l’economia – grazie alla rivoluzione industriale – stava per decollare, così allargando smisuratamente la platea dei beneficiari, troviamo i maggiori economisti dell’epoca che anticipavano un futuro plumbeo. Se la popolazione fosse cresciuta, la terra non sarebbe stata sufficiente per sfamare tutti (secondo Malthus). Con l’arrivo delle macchine si sarebbe creata una disoccupazione difficile da assorbire (secondo Ricardo). Poiché le nuove tecnologie non avrebbero mai assorbito abbastanza lavoro, i salari, con i lavoratori in eccesso, sarebbero rimasti congelati (secondo Marx). Non una di queste previsioni – tutte ragionevoli sulla base delle conoscenze allora disponibili – si è poi avverata.

 

In passato gli artigiani furono sostituiti dagli operai non qualificati – contadini in origine – che potevano produrre i beni grazie alla scomposizione del lavoro in poche e semplici attività, il cui apprendimento non richiedeva molto tempo (secondo Smith). Intanto che i prezzi dei beni in caduta - i prezzi avevano i costi compressi della produzione di fabbrica – potevano allargare la platea dei consumatori. Oggi prevale l’idea che i lavori richiesti saranno sia quelli apicali (il fisico atomico) sia quelli meno qualificati (le badanti), mentre i lavori che sono nel mezzo (i ragionieri) saranno sostituiti dalle macchine. Ed eccoci al famigerato “malessere del ceto medio”, che è al centro del dibattito politico.

 

A fronte di questo intricato nodo, abbiamo il precedente storico (ottocentesco) dei decenni necessari per avere un assorbimento di tutti i lavoratori liberati dalle nuove tecnologie. I sistemi politici ottocenteschi però non dovevano catturare il consenso delle “larghe masse”. Al contrario di oggi. Ed è questo il punto. Come gli imprenditori economici cercano di vendere i propri prodotti ai consumatori, così gli imprenditori politici cercano di catturare i voti degli elettori. I consumatori e gli elettori decidono il successo degli imprenditori – il consumatore come l’elettore è “sovrano”, ma sono passivi, perché comprano l’offerta che non è concepita né portata avanti da loro. Ossia essi sono sì sovrani, ma in “ultima istanza” (secondo Schumpeter). Se questo è il punto – una disoccupazione non immediatamente assorbita in presenza del diritto di voto universale – allora il potere politico sarà tentato (lo è già…) dall’intervenire. I politici offriranno il rilancio della domanda che potrebbe portare a una nuova redistribuzione dei redditi. Allo stesso tempo potrebbero – imitando Tiberio – offrire una politica che freni la diffusione dell’innovazione, in particolare di quella che riduce il peso dei lavori meno qualificati.

 

Il capitalismo – quel sistema economico il cui dinamismo dipende dalle innovazioni portate dagli imprenditori, grazie al finanziamento delle banche e/o dei mercati finanziari – può essere osservato in due modi. Come un’istantanea, o come l’insieme delle istantanee in sequenza temporale (di nuovo secondo Schumpeter). Nel primo caso abbiamo delle “cattive notizie” – come la disoccupazione frutto della scomparsa dei settori vecchi prima che quelli nuovi la assorbano – nel secondo caso abbiamo delle “buone notizie”, per esempio il reddito pro capite reale italiano che si è moltiplicato per oltre dieci volte dall’Unità ad oggi.

 

Che cosa fare nell’attesa che la disoccupazione sia assorbita in presenza del diritto di voto universale? Si possono invitare i concittadini a guardare tranquillamente le fotografie in sequenza temporale, assumendo che in futuro le cose si svolgano come in passato – ossia che si abbia un “happy ending”? Sì, lo si può pensare, se si ha un sistema che impedisce – anche per periodi non limitati – l’impoverimento materiale e non, e quindi l’incarognirsi di quelli che attendono il passaggio dal vecchio al nuovo.

 

Questo sistema è stato inventato ed è lo “stato sociale” emerso dagli anni Trenta – gli anni della grande crisi – sia nei sistemi totalitari sia nelle democrazie. Lo stato sociale deve però avere una legittimazione. Quest’ultima può avere origine nella ragione “dimostrativa”, oppure in quella “rivelata”. Nel primo caso, abbiamo la tesi che la società migliore è quella che rende minimo il mio rischio, se non so dove nasco (John Rawls). Nel secondo caso abbiamo la dottrina cattolica della solidarietà (dalla Rerum Novarum: “Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello stato”).

Lo stato sociale può essere giustificato per via dimostrativa o rivelata, ma il punto pratico è come fare in modo che esso non porti a uno stato centralizzato onnipotente. Negli anni immediatamente successivi la Seconda guerra, la preoccupazione che finisse per prevalere lo stato onnipotente era condivisa da molti, che lo avevano visto in azione nei paesi totalitari nei paesi totalitari a partire dalla Germania (ecco Hayek). Sorge allora l’idea che un modo per frenare la nascita di uno stato burocratico onnipotente possa essere quello di abbracciare la dottrina cattolica come espressa dal Quadragesimo anno, che prosegue le riflessione della Rerum Novarum, dottrina che frenava la sfera di intervento dello stato, oltre che con la difesa della proprietà purché solidale, anche con il principio di sussidiarietà. Il cattolicesimo era visto non solo come un antidoto allo stato onnipotente, ma anche (qui per l’ultima volta Schumpeter) come collante per “trattenere” quei valori e quelle istituzioni che erano all’origine dell'affermarsi del capitalismo. Quest’ultimo, avendo accresciuto a dismisura lo spazio del calcolo razionale, ha finito con il “dissacrare” il suo stesso ordine sociale. In particolare, il calcolo razionale spinge a negoziare i rispettivi ruoli in ambito famigliare. Con il calcolo costi benefici non si ha più la famiglia dell’imprenditore con la moglie devota e con i pargoli che ricevono l’educazione adatta a continuare l’intrapresa famigliare.

 

Torniamo al bivio richiamato all’inizio. Come conciliare la libertà economica, intesa come le innovazioni che si diffondono senza freni, con il corporativismo, inteso come la messa in atto dei freni alle innovazioni? Esiste un modo per lasciare le libere le innovazioni senza che questo leda chi ne subisce le conseguenze? Se si riuscisse nell’intento, non sorgerebbe la domanda di protezione, subito sfruttata dall’offerta di protezione da parte dei politici più lesti.

 

Una soluzione potrebbe essere quella di avere dei sussidi di disoccupazione decorosi, universali, e a tempo determinato. Quel che rende difficile questa soluzione, che in astratto pare la migliore, è il tipo di qualificazione richiesta. Supponiamo che le imprese di distribuzione più avanzate (per esempio i distributori via internet di libri) mettano in seria difficoltà i piccoli negozianti (i librai), perché la loro offerta non solo è di gran lunga maggiore, ma ha anche dei prezzi più contenuti, proprio per l’agire delle notevoli economie di scala. I librai, certi della protezione dello stato sociale, non si oppongono mentre la grande distribuzione dilaga, e quindi non occupano la autostrade. Gli ex librai – supponiamo che non siano tutti molto avanti negli anni, e supponiamo che quelli che lo sono siano già forniti di una pensione decorosa – dove vanno? Che qualificazioni hanno per avere un nuovo lavoro? Se non hanno una qualificazione né se riescono ad averne una come possono vivere? Un sussidio di disoccupazione “non condizionato” dalla ricerca attiva del lavoro, che non si estingue se la ricerca non va a buon fine, sarebbe alla fine un “reddito di cittadinanza”.

 

La ricerca di una soluzione “fuori dal mercato” dei mutamenti generati dalle innovazioni da parte di chi è leso ha un senso preciso (da qui Daniel Kahneman). Il sistema di mercato si appella alla razionalità individuale, capace di definire il miglior interesse personale. Chiamiamo la sfera dell’agire del sistema di mercato “sistema ii”, laddove si arriva ad una decisione attraverso l’analisi dei costi e dei benefici. Ma esiste un’altra sfera, dove si ha l’agire intuitivo, che è mosso dal panico, dall’euforia, e via andando. Chiamiamo la sfera dell’agire fuori dalle logiche di mercato “sistema i”. Nel sistema ii solo i risultati individuali sono premiati. Non si ha riguardo se i risultati siano “giusti” o meno. Ed ecco che entra in azione il sistema i che, invece, vuole i risultati “giusti”.

 

Si ha così la discrepanza di fondo fra “merito” e “destino” (secondo Weber). Chi ha avuto merito pensa di esserselo guadagnato, chi non lo avuto pensa che sia una ingiustizia. La discrepanza porta a desiderare che “un dio verrà – subito o più tardi – e porrà i suoi seguaci nella condizione che meritano”. Che poi il Dio sia quello inteso in senso stretto, quello delle religioni, laddove si ha la giustizia nell’aldilà, oppure sia quello inteso in senso lato, quello delle religioni terrene, ossia il frutto di un sommovimento politico, laddove si ha giustizia nell’aldiqua è altra questione.

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